Questo testo è un estratto del libro Crepacuore. Storia di una dipendenza affettiva, di Selvaggia Lucarelli (228 pp, edito da Rizzoli).


Non basta smettere di drogarsi, per guarire dalla dipendenza. Quando si decide di uscirne sul serio, bisogna sapere che gli strascichi sono lunghi e che prima che ogni cosa ritorni al suo posto (o che magari ne occupi perfino uno migliore), c’è un percorso obbligato da compiere.

Tutto quello che si è lasciato indietro negli anni della dipendenza – le tappe saltate, le questioni irrisolte – si presenterà perentorio davanti alla porta di casa, chiedendo di pagare il conto. Non so se è l’inevitabile chiusura di un cerchio o la tracimazione di una diga che viene giù definitivamente, ma la fine di una relazione tossica, nel suo primo stadio, è un lutto senza riposo.

Quando lo lasciai, nella mia vita precipitò tutto, con tempismo crudele. La tv trash si mise a occuparsi improvvisamente della mia separazione, di «Leon bambino conteso dai genitori». Non era vero, non era giusto e stava accadendo di nuovo qualcosa che mio figlio non meritava, tanto più che da tempo aveva riacquistato felicità e spensieratezza. Mi battei come un leone perché i programmi facessero calare il silenzio su Leon, rifiutai ogni invito in tv per replicare, anzi, quella vicenda fu il più grande spartiacque della mia vita professionale.

Quando una nota conduttrice tv mi convocò in camerino per comunicarmi che se non fossi andata nel suo salotto a parlare di mio figlio, avrebbe invitato la controparte a parlarne al posto mio, non solo non mi spostai di un millimetro dalla mia decisione, ma smisi di andare in tv. In quella tv. E fu una decisione da cui non sono mai più tornata  indietro. Rinunciai alla mia più cospicua fonte di reddito. In quei quattro anni ero stata incapace di costruire, ma ora dovevo imparare a riparare. Non era finita.

Sempre in quei giorni mi suonò la polizia in casa. Tirarono Leon giù dal letto che aveva la febbre, mi perquisirono l’appartamento per un’indagine in corso. Sequestrarono perfino la PlayStation di mio figlio. Fu un’esperienza traumatica, l’ennesima, ma che tutto sommato mi trovò allenata. Mi sentivo comunque meglio nel combattere qualcosa che era fuori di me che nel combattere la droga invisibile dentro di me.

Tutto era un disastro più sopportabile della mia dipendenza. E accadde di più: sentii chiaramente che la catastrofe che stava travolgendo la mia vita mi stava aiutando. Non si trattava neanche più di sopravvivere. Si trattava di riprendere in mano le redini fiammanti, praticamente mai usate, della mia esistenza. Nel frattempo dovevo accettare quello che mi era successo.

La velocità con cui la mia vita professionale e  quella familiare ripresero a funzionare fu stupefacente. La nostra relazione era stata una sorta di fungo infestante, aveva invaso ogni singolo ramo, radice, foglia, frutto della mia esistenza. Estirpato dalla pianta, i primi germogli erano spuntati fuori subito.

Ricominciai a scrivere quello che mi piaceva. A giocare con Leon rigando un sacco di macchine e di pavimenti. Pochi mesi dopo ebbi un mio programma tv. Scrivevo ancora su un giornale. Feci la mia prima vacanza da sola con mio figlio. Prendemmo una casa più grande. E poi, dopo un po’, ho anche scritto dei libri, abbiamo adottato un cane, che Leon ha chiamato inevitabilmente Godzilla.

Un giorno, senza farci caso, passai con la macchina davanti a casa sua. Me ne accorsi solo dopo parecchi metri, era diventata una via come un’altra. Non dovevo più evitarla. Accostai l’auto e la guardai da lontano, perfino grata. Solo una cosa non funzionava ancora: l’amore. Dopo aver vissuto quella dipendenza, mi sentivo un giocattolo rotto.

Non è che non avessi più voglia di amare o non mi fidassi più o non avessi più voglia di buttarmi. C’era un ingranaggio dentro che s’era inceppato. Frequentavo delle persone anche di valore e ogni tanto uomini disastrosi, ma non ero più capace di distinguere ciò che guarisce da ciò che fa ammalare. Non sapevo quale vite si fosse allentata, quale leva fosse storta, quale giuntura si  fosse ossidata.

Dopo quattro anni di ricostruzione, è arrivato Lorenzo. Non è stato tutto facile, ma ho sentito fin da subito che con lui era «la fine dell’assedio». Eravamo tragicamente distanti per età, stili di vita, idee di futuro. Quindici anni di differenza a mio svantaggio. Quando lui emetteva il primo vagito, io forse emettevo il primo grido di piacere. Io accompagnavo mio figlio a scuola, lui  faceva fatica ad accompagnare se stesso all’università. «Quanto vorrei avere la tua età, sarebbe tutto più bello» gli ho detto quando ci siamo innamorati. «Non sarebbe più bello, sarebbe solo più facile» mi ha risposto lui. E così un giorno, dopo poco che ci frequentavamo, schiacciato dai miei dubbi, mi ha lasciata. 

Per la prima volta non ho avuto paura di essere abbandonata, ma di lasciarmi sfuggire l’opportunità di essere felice. Ci siamo guardati da due rive opposte, la corrente ci portava via, allora ci siamo messi a cercare una pietra in mezzo al fiume. Lì ci siamo trovati. Entrambi ci siamo lasciati qualcosa alle spalle – la leggerezza dei vent’anni lui, la voglia di un altro figlio io – ma è andata. Non ci siamo più voltati indietro e ci siamo fidati di noi. Il nostro è un ingranaggio strano, forse somigliamo a quei giri assurdi che fa il cioccolato nella fabbrica di Willy Wonka: un percorso strampalato di nastri, manovelle, bidoni e cucchiai giratutto, ma alla fine funzioniamo.

Nel frattempo, non ho mai smesso di interrogarmi sul perché sia rimasta impantanata in una dipendenza affettiva, come sia potuto accadere proprio a me, e non ho trovato una risposta definitiva. Certo, l’imprinting affettivo della mia famiglia ha avuto un ruolo, così come lo ha avuto senz’altro la mia indole dominante, che mi ha a lungo illusa di poter dominare tutto.

Di sicuro so che mentre mi succedeva pensa vo di non potermi salvare. E che invece mi sono salvata. Non dirò mai che sono felice di essere passata attraverso un dolore che mi ha dilaniata, benché quel dolore mi abbia indubbiamente arricchita.

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