L’asessuale ce l’abbiamo. Ci sono il paraplegico, la sorda, e la madre sopra i quaranta in depressione post-partum. Ci sono ragazzi e ragazze transgender e qualche persona non binaria. Gay e lesbiche non mancano, di tutte le forme e di tutte le età, e ci sono anche un paio di eterosessuali perbene.

Al Cavendish college di Sex Education, serie sulle paturnie sessuali dell’adolescenza che si è appena conclusa su Netflix alla sua quarta stagione, hanno costruito un’utopia fluida, in cui la gentilezza regna sovrana e ognuno è libero di essere chi vuole senza essere giudicato.

Questa stagione ha messo il turbo alla wokeness e si è conclusa con una puntata di un’ora e mezza, in cui tutti chiedono scusa, risolvono conflitti, si riappacificano con le proprie nemesi, trovano la propria strada e vivono per sempre felici e contenti, o quasi.

I cattivi diventano buoni, i traumi si superano, le famiglie felici si assomigliano tutte, quelle infelici eccetera eccetera.

Una melensaggine che risulta perdonabile solo perché la produzione è britannica e ha conservato quel tanto di umorismo crudo che permette a questo mondo per unicorni di non risultare stucchevole, ma piuttosto desiderabile.

Dobbiamo parlarne

Non c’è pretesa di verosimiglianza in Sex Education, una serie in cui l’Inghilterra sembra la Svezia, l’America sembra l’Inghilterra, e i liceali interpretati da attori trentenni – come vuole la grande tradizione del teen-drama, da Happy Days a Beverly Hills 90210 a Gossip Girl – imparano un sacco di cose, imparano tutto, tranne a non mettere le scarpe sul letto o a fare le equazioni di secondo grado. Al Cavendish college infatti gli studenti si occupano di elezioni, raccolte fondi, ascensori che non funzionano, ma mai una volta che qualcuno avesse il problema di fare schifo in matematica.

Ma non è di questo che voglio parlare. La visione di Sex Education, che pure ho seguito con gusto, mi ha ricordato che sono una vecchia zia e che il sesso, in fin dei conti, mi ha rotto il cazzo.

Da quanto tempo il sesso è al centro di qualsiasi discorso? Anni, decenni, secoli? Abbiamo mai parlato di altro? Ötzi si ossessionava sulle sue prestazioni a letto prima di finire in un museo sotto forma di speck? Mi sembra tuttavia che ci sia una specificità dei nostri tempi, per cui il sesso ha preso una centralità nuova, ma soprattutto una dignità sociologica che un tempo non aveva.

Non è solo che adesso possiamo parlare apertamente di sesso, ma dobbiamo parlarne. Identità sessuale, orientamento sessuale, perversioni sessuali, desideri sessuali, esperienze sessuali, violenze sessuali, sessi sessuali. Sono queste le cose che ci definiscono.

Il sesso che abbiamo fatto, il sesso che vorremmo fare, il sesso che cambia e cambierà.

È tutto giusto, viva la liberazione, ma se vedo un’altra intervista a una giovane donna che a gambe incrociate disquisisce della sua prima volta mi faccio saltare in aria.

Non è che sono posseduta improvvisamente dallo spirito di Alain Elkann, è solo che non lo trovo interessante.

O comunque lo trovo meno interessante di una serie di altri temi. Perché invece non parliamo di soldi? Voglio poter entrare in casa di qualcuno e chiedergli apertamente quanto paga di mutuo, voglio sapere quanto guadagna e cosa fanno i suoi genitori.

Voglio che qualcuno mi spieghi perché tutti i maschi che conosco a un certo punto hanno iniziato a investire, mentre le mie amiche investono solo in epilazione laser. Voglio una serie su una donna con lo stipendio da insegnante che si fa i debiti per comprare le creme di La Mer. Voglio più Charles Dickens, meno Valentina Nappi.

La voce delle vecchie zie

Intanto una volta al mese, a tamburo battente, esce un nuovo studio più o meno serio, di università e enti statistici più o meno affidabili, intitolato più o meno sempre nello stesso modo: “I giovani fanno sempre meno sesso”. È dunque questo il risultato di tutto quel liberarsi a destra e a manca? La lenta ma costante saturazione?

Io non lo so se questo rappresenti o meno il progresso, le mie competenze in materia si sono fermate a Loveline con Camila Raznovich (di cui a questo punto caldeggerei un reboot, visto l’interesse per il tema) ma penso che una serie come Sex Education sia giusta e ben sintonizzata con lo spirito del tempo, e che nello sforzo di dare voce a tutti non dia davvero voce a nessuno. O forse semplicemente non dà voce alle vecchie zie.

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