Difficile immaginarlo, dovendosi districare dalla giungla di fatti miei a cui ho abituato i lettori di queste pagine, ma c’è stato un tempo in cui la politica era una parte non del tutto irrilevante della mia vita.

Va detto anche che non sono mai stata una pasionaria: negli anni del liceo i centri sociali li frequentavo soprattutto per andare a ballare e il mio bisogno di ribellione si concretizzava perlopiù nella rimozione sistematica delle maniche di tutte le mie magliette.

Camminavo nella neve con le scarpe di tela, ero sgradevole con mia madre e bazzicavo i concerti dell’unico gruppo punk della mia scuola, gli Erezione Continua. La loro hit si chiamava Borghese di merda e io la cantavo a squarciagola, senza nessun senso del ridicolo e rimanendo piuttosto grata sia alla mia famiglia borghese che alla famiglia borghese del mio fidanzato dell’epoca con la casa a Pantelleria, dove passavo l’estate.

Tuttavia organizzavo assemblee d’istituto impegnate e improntate all’antiberlusconismo, andavo ai comizi di Beppe Grillo e pensavo «mica male questo comico sovversivo!», partecipavo alle manifestazioni e agli scioperi con vari gradi di coinvolgimento, passavo un sacco di tempo a litigare su Facebook con sconosciuti che scrivevano cose razziste, sessiste o semplicemente molto stupide, leggevo Gramsci per darmi un tono e lo citavo a casaccio nei temi in classe.

La prima cosa che io abbia mai scritto su un giornale vero (l’edizione online, che comunque mi riempiva di orgoglio) era un resoconto dell’autogestione che avevamo avviato a scuola per protestare contro la riforma Gelmini.

Mi sentivo custode del sacro fuoco della rivoluzione, che nel mio caso era soprattutto un prodotto del contesto, essendo il contesto una scuola progressista, degli amici di sinistra e una famiglia composta da una madre che mi aveva trascinato a tutte le marce della pace possibili da che ne avevo memoria e un padre che aveva fatto il 1977 a Bologna e non perdeva occasione di portarmi davanti al muro trivellato dagli spari che avevano ucciso Francesco Lorusso. Avevo idee confuse e approssimative su molte cose, ma mi importava di tutto.

Impeto di ritorno  

Quindici anni dopo mi rendo conto che mi importa sempre meno, di sempre meno cose. Ancora mi scaldo e mi indigno e mi lamento alle cene dove siamo tutti d’accordo, ma poi mi chiedo: perché? A che pro? A chi importa? A cosa serve? La verità è che quest’anno, per la prima volta dopo moltissimo tempo, sono scesa in piazza convinta che fosse necessario e mi sono sorpresa a sentirmi fuori posto, un’impostora.

Non so bene cosa sia successo: forse uscire di casa e studiare e trovare a stretto giro modi per pagare le bollette ha ricalibrato le mie priorità (mangiare sia a pranzo che a cena über alles, ma anche andare in vacanza e comprarmi i sieri per la faccia), forse la strada per l’età adulta è lastricata di individualismo, forse si nasce incendiari e si muore Margaret Thatcher, fatto sta che mentre questa settimana leggevo Noi vogliamo tutto di Flavia Carlini mi sono sentita di nuovo come a quella manifestazione: arrabbiata, certo, ma anche in colpa.

Flavia Carlini è una divulgatrice e un’attivista nata nel 1996 e anche se ha solo quattro anni meno di me mi sembra venire da tutta un’altra generazione, forse da un altro mondo.

Mentre leggevo il suo libro, un breve saggio che unisce l’esperienza personale e mortificante di essere una donna giovane in un’azienda piena di uomini molesti (o forse dovrei dire solo “di uomini”, tale è la condivisibilità della sua storia) ai dati sulla disparità di genere sul lavoro, ma racconta anche l’esperienza personale e mortificante di essere una giovane donna con una malattia atroce e invalidante – l’endometriosi – che per anni nessuno ha saputo riconoscere e diagnosticare, ma anche l’esperienza personale e mortificante di essere violentata da un medico (ogni capitolo sempre corredato dai dati statistici sul tema), sentivo lo stomaco che si chiudeva nel disgusto, le tempie che si scaldavano e una voglia improvvisa di lanciare delle molotov.

La realtà fuori dalla bolla 

La riconosco, è la rabbia che provavo da ragazza e che mi ha riportato in piazza qualche mese fa, ma che ormai quasi mai mi accompagna nella mia vita quotidiana straordinariamente priva di soprusi: ho sempre lavorato in uffici di donne, le mestruazioni non mi hanno mai dato dolori, frequento perlopiù uomini perbene.

Carlini mi ha ricordato che fuori dalla mia bolla il mondo è un brutto posto e mentre faticavo a trovare una posizione comoda sul mio divano ho provato uno slancio di gratitudine verso questa giovane donna che di mortificato non ha proprio niente, e ha invece ancora la forza di incazzarsi per le ragioni giuste. Lei vuole tutto, io forse non voglio abbastanza.

Non ho ancora detto che Carlini ha anche un notevole seguito sui social, circa 250mila follower, e che io, in quanto vecchia ciabatta nell’animo, tendo a guardare con scetticismo a chi combatte via Instagram: trovo molto pericoloso il binomio tra posizionamento personale e interesse collettivo, gli esempi poco virtuosi e discutibili di questa unione sono svariati.

Ma in questo caso i miei pregiudizi non reggono, Carlini è una seria e il sacro fuoco della rivoluzione lei ce l’ha davvero.

Lo si capisce già dalle prime pagine del suo libro, agile ma intriso di rabbia, non privo comunque di qualche guizzo letterario: «A lasciarmi interdetta non sono tanto i fallimentari rituali di approccio che alcuni uomini instancabilmente portano avanti, quanto piuttosto l’ampiezza del raggio di azione di questi individui dalla pelle bianca e levigata come un bidet» scrive, producendo le tre righe più deliberatamente patetiche della saggistica contemporanea. 


Noi vogliamo tutto. Cronache da una società indifferente (Feltrinelli 2024, pp. 176, euro 16) è un libro di Flavia Carlini 


 

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