Qualche giorno fa, un tipo, bardato di mascherina e infilato in un bel giubbino in ecopelle, camminava sul marciapiede di una strada poco trafficata.

Incedeva rapido e, occhi nello schermo del telefono, dita che saettavano sulla tastiera, ignorava il mondo intero. D’un tratto, però, come in una commediola di serie b, è ruzzolato sul marciapiede. Per prima cosa, ha controllato che il telefono fosse salvo; e, miracolo, non si era fatto niente. Poi confuso si è girato, e appena dietro di sé ha visto una fioriera. Sgambettando con gli occhi piantati nel cellulare, il tipo l’aveva centrata in pieno ed era finito con il naso a grattare per terra. Spedita un’occhiataccia all’assalitrice, massaggiandosi le gambe e guardandosi attorno circospetto, il tipo si è tirato su, si è ricomposto e, come se niente fosse, ha ripreso a camminare e a pigiare sul suo telefono.

Quel tipo, chiaramente, ero io. Ho ancora dei bozzi violacei sugli stinchi e al vaso maledetto l’ho giurata, ma dubito che potrò ricambiare mai il torto.

Quando sono stato atterrato stavo scrivendo un’e-mail. Nulla d’importante o interessante, a dire il vero, ma pur essendone cosciente io stesso, una parte di cervello mi diceva che quel lavoro non potevo rimandarlo. L’e-mail dovevo scriverla, e dovevo scriverla in quel momento. A non farlo, mi sarei sentito scomodo nei vestiti. Come quando addosso hai un maglione di lana grezza e niente sotto; la sensazione sarebbe stata la stessa.

La cosa mi ha fatto riflettere. E se da una parte mi sono detto che ho una soglia del dolore bassa, una botta agli stinchi e vedo le stelle, dall’altra mi sono detto che ho un problema manifesto, e forse grave, con cellulare e lavoro.

Quindi, mi sono rivolto a internet. «Perché devo rispondere subito alle email», ho chiesto; non giudicatemi, chi non ha fatto domande strane a Google scagli la prima pietra. Ed è venuta fuori la parola workaholism.

Secondo l’idolo web è questa la ragione per cui rispondo alle telefonate anche quando sono in doccia, ai messaggi di WhatsApp anche quando sono a tavola, alle e-mail anche quando sono appena sveglio. Per cui dimentico ciò che mi viene detto, visto che spesso ascolto e faccio chissà cosa su internet. Per cui guardando un film mi capita di dover tornare indietro e ripescare un passaggio che mi sono perso a causa di un’e-mail. Per cui la mia psicanalista ha potuto ultimare i lavori di ristrutturazione del soggiorno.

In pratica sto sempre appiccicato al telefono. È il primo a cui do il buongiorno, è l’ultimo a cui do la buonanotte. Sempre mezzo scarico, sempre che vibra, sempre accanto a me. Giuro però: quasi mai perché cazzeggio; e se dico quasi è perché voglio essere sincero, quindi credetemi. Amici e parenti non fanno che lamentarsene, ma da oggi a chi mi rimprovera potrò dire che non è colpa mia se sono messo così male: soffro di una forma (pure se lievissima, va detto) di workaholism, fatevene una ragione.

Ubriachi di lavoro

Workaholism. È una sindrome ossessiva-compulsiva che indica chi si ubriaca di lavoro. Chi ne soffre mette in secondo piano tutto ciò che non concerne il lavoro. Manda in vacca la vita sociale, famigliare. Ha sbalzi di umore, spesso è aggressivo. Non ha interesse per le attività di svago (considerate perdite di tempo). Dorme poco. È incapace di rilassarsi. Ha difficoltà a relazionarsi con gli altri. È macerato dalle scadenze. S’impoverisce emotivamente.

Insomma, è una dipendenza a tutti gli effetti; e io, ipocondriaco come tutti i migliori millennial, me la sono diagnosticata in quattro e quattr’otto. Lo dico a scanso di equivoci, però: di workaholism non credo di soffrire, piuttosto mi direi sulla buona strada.

Il termine è stato coniato nel 1971 dallo psicologo statunitense Wayne Oates nel suo Confessions of workaholics: the facts about work addiction e da allora sono stati condotti molti studi. È stato così possibile localizzare in Giappone, nel 1969, un caso di morte per workaholism, riscontrare la patologia nel 5 per cento degli americani nel 1980 e, di nuovo in Giappone, rilevare, nel 1966, che il 21 per cento dei manager ne fosse affetto.

Insomma, all’inizio, qui, l’ho un po’ buttata in caciara, ma la faccenda è seria. Lo è per me che a quell’e-mail, telefonata, messaggio, lettura, articolo vorrei non pensare. Lo è per chi ha sacrificato un rapporto, una relazione. Per chi ha dovuto rinunciare al giovedì sera pizza e film con un amico. Per chi non è più potuto andare alla recita di Natale dei figli. Per chi prende sonno non contando le pecorelle ma le pratiche da compilare il giorno dopo. Per chi ha dimenticato un anniversario. Per chi non può più farsi la partitella a calcetto con quelli del liceo. Per chi la sera è troppo stanco per cucinare e quindi meglio passare dal cinese, in rosticceria, tirare fuori dal freezer una di quelle pizze (che poi pizze, vabbè) che due minuti nel microonde e sono pronte, e quindi sì, ecco, meglio una di quelle cose lì, che tanto i grassi ad ammazzarci ci mettono di più.

Ecco, è a sacrifici piccoli o piccolissimi che costringe il workaholism, rinunce che se ammonticchiate, schiacciano. Tempo ed energie convergono nel lavoro e inevitabilmente vengono sottratti ad altro (hobby, sport, cura della persona, famiglia e amici; tra i workaholic la percentuale dei divorziati è del 45 per cento).

Falso idolo

Siamo tutti molto religiosi, questa è la verità, e neanche ce ne rendiamo conto. Dediti al culto di un falso idolo. Accecati dall’illusione di una terra che non ci è mai stata promessa e che però dobbiamo conquistare. La chiesa è l’ufficio, ma il Dio non è il lavoro, non il denaro; possiamo dircelo in faccia, che quello è un concetto superato. No, il Dio è un altro, e credo coincida con il desiderio di essere qualcosa per fuggire la paura di essere niente, con la sopraffazione che smaniamo di esercitare sugli altri, con una proiezione di noi stessi falsata dall’ansia di fare meglio. Ma meglio per chi?

Il problema è che il mondo corre, e noi dobbiamo stargli appresso. Inseguirlo con la sensazione di essere un passo indietro e avere una gamba cionca; come se ci avessero azzoppato a inizio corsa. E penso sia questa la ragione per cui ci si ubriaca di lavoro: vogliamo emergere, noi.

In questo ammasso di corpi in agonia, braccia al cielo e gambe che scalciano, ci dimeniamo senza sosta per venire a galla e guadagnarci un posto al sole. E va bene, dare il meglio di noi credo sia giusto e salutare. Il mio non è un elogio alla mediocrità o alla fissità. Ciò che mi chiedo, ciò che vi chiedo, piuttosto, è a cosa siamo disposti a rinunciare, più o meno consciamente, per vincere questa competizione millenaria indetta da chissà chi e chissà perché? Ciò che mi chiedo, ciò che vi chiedo, è: siamo sicuri che sia questa la misura della vita vogliamo abitare?

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