Nella primavera del 1928 Georges Simenon (che ha appena compiuto venticinque anni e ne ha già abbastanza della vita mondana che conduce a Parigi) si compra una piccola barca, la Ginette (lunga quattro metri e larga poco più di uno e mezzo), e parte, in compagnia della moglie Tigy, della domestica (e ben presto amante) Boule e del cane Olaf (un danese sui sessanta chili), per un viaggio attraverso i fiumi e i canali della Francia che durerà ben sei mesi: durante i quali gli capiterà di dormire sotto una pioggia sferzante, o di sguazzare nel fango, o di cercare di arrivare davanti alle chiuse prima delle grandi chiatte tirate dai cavalli, o di manovrare tra rocce a pelo d’acqua... Tre anni dopo, il settimanale Vu gli commissionerà quello che diventerà il suo primo reportage: insieme a un giovane fotografo di origine ceca, Hans Oplatka, Simenon ripercorrerà, in macchina questa volta, la «vera Francia», e tornerà a casa con un bottino di duecento fotografie. Solo una decina illustreranno, su Vu, il racconto dell’esaltante navigazione a bordo della Ginette, ma il lettore scoprirà che senza quell’«avventura tra due sponde» non esisterebbero romanzi come Il cavallante della «Providence», La balera da due soldi, La chiusa n. 1, per non parlare di tutte le locande in riva a un fiume dove il commissario Maigret, nel corso di un’inchiesta, va talvolta a trascorrere un paio di giorni, occasionalmente in compagnia della sua signora, fingendo a malapena di essere lì per rilassarsi.

Nei pochi ritratti a cui abbiamo potuto avere accesso, Hans Oplatka, in età avanzata, somiglia un po’ a Mel Brooks, e come lui ha un’aria amabilmente maliziosa. Che aspetto avesse a vent’anni possiamo solo provare a immaginarcelo (personalmente, me lo immagino come una specie di Jimmy Olsen, con i capelli che danno sul rossiccio e una faccetta simpatica).

Ne ha appena diciannove, il ragazzo Hans, quando, nell’estate del 1931, parte insieme a Georges Simenon (che ne ha otto più di lui) per un giro di Francia a caccia di fotografie destinate a illustrare il testo di Une France inconnue ou L’aventure entre deux berges, il racconto della navigazione compiuta, nel 1928, sulla Ginette in compagnia di Tigy, di Boule e del cane Olaf – racconto che avrà l’onore di essere pubblicato integralmente in un numero speciale del settimanale «Vu».

Fondata nel 1928 da Lucien Vogel sul modello della «Berliner Illustrirte Zeitung», «Vu» ha inventato una nuova forma di fotogiornalismo, basato essenzialmente su reportage, corredati da fotografie, in cui si affrontano argomenti che spaziano dall’attualità alla scienza, dalle arti allo sport, dalla cultura alla moda – e soprattutto su una grafica e un’impaginazione radicalmente innovativa, influenzata dalle avanguardie (dadaismo, costruttivismo, Bauhaus).

Con «Vu» (che costituirà a sua volta il modello di molte altre riviste, una per tutte l’americana «Life») collaborano, e collaboreranno, tra gli altri, André Kertész, Henri Cartier- Bresson e Brassaï, Man Ray, Germaine Krull, Robert Capa, Gerda Taro. Hans Ernest Oplatka è nato a Vienna e ha studiato a Praga, dove il padre Emil lavorava per le agenzie di stampa Reuters e Orbis e per la Central European Radio; poi ha frequentato, a Vienna, il Graphische Lehr und Versuchsanstalt, specializzato in fotografia, tipografia e arti grafiche, ed è stato grazie al padre che, approdato a Parigi all’inizio del 1930, ha potuto entrare in contatto con la redazione di «Vu». Anche Simenon, quando era arrivato a Parigi, non aveva ancora vent’anni. Poco più di un anno prima aveva perso il padre, poi aveva sbrigato senza troppi inconvenienti la fastidiosa incombenza del servizio militare e subito dopo aveva annunciato alla temibile Henriette, sua madre, che aveva deciso di lasciare Liegi.

Ma da allora ne ha fatta di strada. All’inizio è stato per alcuni mesi segretario (diciamo pure: fattorino) di un prolifico quanto mediocre scrittore, Binet-Valmer, per il quale, oltre a copiare indirizzi sulle buste da inviare agli iscritti alla Lega dei capisezione e degli ex combattenti di cui Binet-Valmer era presidente, aveva il compito di andare a consegnare personalmente a tutti i caporedattori dei quotidiani parigini (quarantacinque, all’epoca) i comunicati stampa della Lega medesima.

Incarico che gli ha però consentito di scoprire Parigi, nonché di fare la conoscenza di quello che per i due anni successivi sarebbe stato il suo datore di lavoro: il marchese di Tracy, amico e compagno di fede politica di Binet-Valmer. Grazie a lui (svolgendo questa volta funzioni da autentico segretario), il giovanotto belga cresciuto nel quartiere operaio dell’Outremeuse ha potuto dare ben più di un’occhiata a un mondo, quello dell’aristocrazia, e in particolare la piccola nobiltà di provincia, che comparirà più volte nei suoi romanzi «popolari», e non solo. Nel 1924 ha deciso che ne ha abbastanza della «vie de château», ma soprattutto ha capito che c’è un solo posto dove potrà affermarsi come romanziere: Parigi.

In realtà, tra l’ufficietto in cui lo aveva confinato Binet-Valmer e le villeggiature del marchese di Tracy, Simenon non ha mai smesso di scrivere racconti e romanzi che è riuscito a piazzare a riviste e case editrici specializzate nella letteratura popolare.

Ma, dal momento in cui lascia il marchese e si trasferisce a Parigi (dove nei primi tempi passerà, con la giovane moglie Tigy, da uno studio all’altro, in condizioni, quasi sempre, di relativa indigenza), comincerà a non fare altro: scrive, furiosamente, incessantemente, producendo fino a ottanta pagine, fino a sette racconti al giorno. Sarà il suo apprendistato, come spiegherà molti anni dopo a Francis Lacassin: per quanto stupido, infatti, un romanzo popolare necessita di una costruzione rigorosa, perfino più di un romanzo letterario; e poi bisogna sapere in che modo far entrare in scena un personaggio, e come farlo parlare; e come descrivere case, caffè, paesaggi – e atmosfere.

Per tutta la seconda metà degli anni Venti, dunque, Simenon impara il mestiere, sgobbando come un dannato, dando alle stampe, con una ventina di pseudonimi, racconti di avventure, racconti comici, racconti strappa lacrime, soprattutto racconti «osé» per il settimanale «Le Frou-Frou», di proprietà dell’ineffabile Eugène Merle (lo stesso che, più avanti, gli proporrà di scrivere un romanzo in tre giorni sotto gli occhi del pubblico, chiuso in una gabbia di vetro – numero da circo che alla fine non avrà luogo, anche se c’è chi giura di averlo visto). Gli assegni a vuoto che a Merle capita di rifilare a Simenon, lui sa come rivenderli a metà prezzo.

Un po’ alla volta il tenore di vita della giovane coppia migliora decisamente, e Georges e Tigy entrano nel «tourbillon» della vita parigina (la definizione è del maggior biografo di Simenon, Pierre Assouline): sulla Rive Gauche frequentano assiduamente La Coupole e Le Dôme, nonché gli atelier degli artisti che all’epoca bazzicano Montparnasse (Vlaminck, Derain, Picasso, Soutine, tra gli altri); sulla Rive Droite, invece, c’è Le Boeuf sur le toit, che attira personaggi come Raymond Radiguet e Paul Morand, Maurice Chevalier e Coco Chanel, François Mauriac e Djagilev...

E soprattutto c’è il teatro degli Champs-Élysées, dove, nell’autunno del 1925, tra lo stupore del tout-Paris e lo scandalo dei benpensanti, si esibisce per la prima volta colei che delle notti della capitale diventerà la sovrana indiscussa: Joséphine Baker. Lei ha vent’anni, Georges ventitré. Della donna dal «culo che ride» lui si innamora perdutamente (non gli accadrà molto spesso) – anzi, l’avrebbe sposata volentieri se non avesse temuto, come confesserà nelle Memorie intime, di diventare «il signor Baker».

Risoluto a evitare quel rischio, Simenon trascorre l’estate del 1927 nel piccolo paradiso terrestre di Porquerolles, che lui e Tigy hanno scoperto da poco: una maniera piacevole, ed efficace, di lasciarsi alle spalle quello che è stato, senza alcun dubbio, un grande amore.

E forse è ancora per tenersi a distanza da Joséphine che nella primavera del 1928 decide di comprarsi una barca e di starsene alcuni mesi lontano dalle mondanità parigine. Ma le ragioni a cui lui stesso attribuisce quella decisione sono altre. «Non ho mai fatto reportage per i giornali», dichiara Simenon a Francis Lacassin, «li ho fatti per me». Tutti i suoi romanzi, afferma, la sua intera vita non sono stati altro che una ricerca dell’uomo nella sua essenza, nella sua «nudità». «Arrivato a Parigi, continuavo a cercare di conoscere l’uomo. Per trovarlo, bisognava che conoscessi la Francia». E ha pensato che il modo migliore non fosse di attraversarla in macchina tra distributori di benzina e quartieri commerciali, ma di percorrerla per fiumi e canali.

Della tecnica della navigazione, quando parte, non sa assolutamente nulla, ma che importa?

Imparerà sul campo – come fa per i romanzi. E a questo proposito: non si tratterà di una vacanza, figurarsi; si porterà dietro la macchina da scrivere e un tavolino, e ogni mattina produrrà un congruo numero di pagine (talvolta attorniato, sull’alzaia di un fiume o di un canale, da sfaccendati e curiosi che lo osservano sbigottiti). Soltanto dopo si metterà in testa il suo berretto da capitano e affronterà ponti e chiuse, mulinelli e scogli a filo d’acqua, fango e banchi di sassi... Non ci vorrà molto, racconta il solito Assouline, perché cominci a spacciarsi, soprattutto con i neofiti, per un navigatore esperto – tanto che proprio a lui Jean Vigo, nel momento in cui comincerà a preparare L’Atalante, chiederà informazioni sulle chiuse e i villaggi dell’Île de France.

Come sia stato il tour de France del fotografo, talentuoso ma alle prime armi, e dell’apprendista romanziere, anche questo possiamo solo cercare di immaginarcelo: avranno preso la famosa Chrysler di Simenon, probabilmente, e di sicuro si saranno fermati a mangiare e a dormire in quelle guinguettes, le locande affacciate sull’acqua, che torneranno – perché niente va sprecato, e Simenon ha una memoria di cemento armato – in tanti romanzi e racconti: dal Cavallante della «Providence» alla Chiusa n. 1, dal Barone della chiusa a Firmato Picpus...

Quello che sappiamo di certo è che Simenon dà costanti e precise indicazioni al giovane fotografo sui luoghi e i soggetti da riprodurre, che, anche quando non sono esattamente quelli che ha incontrato tre anni prima, ne evocano in modo perfetto atmosfere e caratteri; e che conserverà in una cartella le duecento foto scattate durante il viaggio. Inoltre, che approfitterà della compagnia e delle conoscenze di Hans per imparare da lui tecniche e procedimenti che gli serviranno per fabbricarseli da solo, i suoi reportage, nei molti viaggi che farà in seguito.

Alla Ginette, come confesserà molti anni dopo, Simenon è sempre rimasto affezionato; il che non gli impedisce, una volta rientrato a Parigi, di venderla per farsi costruire una barca «vera»: l’Ostrogoth, con la quale potrà finalmente navigare sul mare, arrivando fino alla Lapponia finlandese. E sarà nel corso di questo nuovo viaggio che nel settembre 1929, durante una sosta forzata a Delfzijl, nei Paesi Bassi, gli verrà incontro (così narra la leggenda) «la massa imponente e impassibile di un signore che – mi parve – sarebbe stato un commissario accettabile», e al quale nel corso della giornata aggiungerà alcuni accessori: una pipa, una bombetta, un pesante cappotto con il collo di velluto...

Ma questa è veramente un’altra storia.


Per una bibliografia men che minima:

Georges Simenon, Mémoires intimes, Presses de la Cité, Paris, 1981 [trad. it. Memorie intime, seguite dal Libro di Marie-Jo, Adelphi, Milano, 2003].

Pierre Assouline, Simenon. Biographie, Julliard, Paris, 1992 [trad. it. Georges Simenon. Una biografia, Odoya, Bologna, 2014].

Francis Lacassin, Conversations avec Simenon, Éditions du Rocher, Paris, 2002 [trad. it. Conversazioni con Simenon, Lindau, Torino, 2004; nuova ediz., 2017].

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