Il Corriere ha raccontato che Risi pensò inizialmente all’attore romano come protagonista del suo capolavoro. Per fortuna non è successo. La metafora contemporanea di Sull’orlo del precipizio di Antonio Manzini. Pensieri intorno alla Vera storia di Ciccio Fred Scotti. Torna la rubrica di cenette sentimentali e settimanali con i lettori vecchi e nuovi
Domenica scorsa
L’altro giorno il Corriere ricordava che per un quarto d’ora si pensò ad Alberto Sordi come protagonista del Sorpasso al posto di Vittorio Gassman. Che pericolo mortale abbiamo corso noi veneratori di quel capolavoro.
Le cose andarono così. Dino Risi raccontò la trama a Sordi. Quella che la valorosa Cineteca di Bologna riassume così nel suo sito: «Ferragosto 1962. Una Roma deserta. Una Lancia spider. Un perdigiorno vorace e uno studente timido. Via lungo l’Aurelia, risalendo una vita balorda a velocità folle. Certe bravate, certe ragazze, certe canzoni che danno da pensare o da ballare. Siamo di nuovo lì, immersi in quegli anni sovreccitati e inquieti, fino alla curva fatale. Il nostro vero capolavoro nouvelle vague».
Quando Risi finì di raccontare la storia del Sorpasso, Sordi disse: «È un film in cui mi darò un gran da fare e tutto il merito se lo prenderà qualche altro». E credo che Risi, in quanto regista, tirò un sospiro di sollievo. Il sorpasso non sarebbe stato Il sorpasso con Sordi al posto di Gassman, non sarebbe stato il film che è stato il più bel romanzo italiano del secondo Novecento assieme a Il male oscuro di Berto (non segue dibattito).
Mai amato Sordi (non mi fa ridere). Era meschino, gretto, come conferma la sua risposta a Risi. Certi miti italiani nazionalpopolari (tipo Sordi, tipo Enzo Biagi, ma anche tipo Pippo Baudo parlandone da vivo) mi lasciano secco come diceva il giovane Holden («it really kills me», mi pare fosse l’espressione usata da Salinger). Gassman era un’altra cosa, Giorgio Bocca era un’altra cosa, Renzo Arbore è un’altra cosa.
Lunedì
Ci ho dormito sopra e mi è venuto il sospetto che Risi lo fece apposta, che raccontò la trama del Sorpasso a Sordi in maniera da scoraggiarlo, da convincerlo a rinunciare al ruolo.
Martedì
Per rasserenarmi dopo gli incontri di Anchorage e Washington, ho spolverato le librerie ispirandomi al magico potere del riordino tanto caro ai giapponesi. Mi è capitato tra le mani Sull’orlo del precipizio di Antonio Manzini (Premio satira di Forte dei Marmi). Lì per lì mi è sembrato antiquariato, un pamphlet su quando Mondadori provava a comprarsi Rizzoli e Bompiani e molti temevano l’avvento di un Editore Unico, una specie di Grande Fratello della carta stampata.
La storia narrata da Manzini è quella di uno scrittore di successo, Giorgio Volpe, un milione di copie vendute a botta, il quale consegna il nuovo romanzo alla sua casa editrice, la Gozzi, che lo ha sempre riempito di coccole. La Gozzi, nel frattempo, si è fusa con altre due case editrici, ma tutto sembra rimasto uguale. Il manoscritto di Volpe viene letto da Fiorella, la sua editor di fiducia, che ne rimane incantata come da tradizione.
Volpe è uno scrittore che sa il suo mestiere e gli interventi redazionali sui suoi testi si limitano di solito a minimi aggiustamenti. Per apportare queste poche correzioni, Volpe e Fiorella si danno appuntamento a casa dello scrittore a Genova. Il giorno stabilito al posto di Fiorella si presentano «due uomini, alti, vestiti con un completo fresco lana nero, la camicia bianca, la cravatta rosso fuoco». Uno si chiama Aldo ed è di Macerata. L’altro si chiama Sergej ed è di Mosca. I due sconosciuti sono i nuovi editor della casa editrice, saranno loro a provvedere alla messa a punto del libro prima di pubblicarlo.
Sergej apre una valigetta e tira fuori «un MacBook Air ultima generazione con il guscio d’oro e gli Swarovski sul logo». Vuole mettersi subito al lavoro. Volpe protesta. Lui da anni si trova benissimo con Fiorella, gli dispiace ma non ha intenzione di sostituirla con i nuovi editor. Sergej lo gela con accento russo: «Adesso tu lavora con noi». E gli spiega che Fiorella (anzi «Fiorela», come pronuncia lui) è andata in pensione.
Lo scrittore non si arrende (mentre si chiede tra sé e sé che editing potrà mai fare uno che parla l’italiano che parla Sergej), chiama quindi la Gozzi, gli risponde un messaggio automatico che prega di rivolgersi altrove. Volpe discute con i due editor, i quali gli spiegano che il suo libro uscirà contemporaneamente in Italia e in Russia. Sergej è lì per questo. Non deve preoccuparsi Volpe, Sergej è un editor di lungo corso, ha fatto l’editing di Guerra e pace…
Allora ho capito tutto. Sull’orlo del precipizio non è roba d’antiquariato. Mi sbagliavo, è un racconto attualissimo, una metafora contemporanea. E contiene un messaggio che suona come un allarme: non fate fare l’editing del mondo a Putin.
Mercoledì
Piove e tira vento. Stabilimenti balneari chiusi. Riprendo a rimuginare su La vera storia di Ciccio Fred Scotti, domatore di leoni e cantante di canzoni della mala locale, spin-off di Cosenza nel ’900, il libro di Paride Leporace che è la mia Ricerca del tempo perduto. Avevo smesso di pensarci bloccato dal dubbio che fosse una storia alla Ernest Hemingway (Le nevi del Kilimangiaro) e non alla Gabriel García Márquez come presumevo. Rileggendo i commenti sulla pagina Facebook di Leporace, mi convinco che la direzione giusta è marqueziana (Cronaca di una morte annunciata).
Francesco Rao scrive a Leporace di ricordarsi di Fred Scotti, amico e compagno di bevute di suo nonno. Rao lo sentì pure cantare in osteria («era bravo). Ma era anche «tanto matto». E fece «una fine brutta». Secondo la sua testimonianza, un uomo «si faceva» la moglie di Fred. Non pago di questo, lo prendeva pure in giro e alla fine l’avrebbe addirittura ammazzato. Conclude Rao: «Se l’è voluta quella fine, era predestinato a morire in quel modo».
Cornuto e mazziato il povero Fred Scotti, lui, un domatore di leoni? Andò veramente così? Raccontano altri follower di Leporace che le cose stanno al contrario. Era Fred Scotti che «puntualmente e pubblicamente» bullizzava «il pover’uomo che l’ha ammazzato» e di cui si scopava la moglie (era bellissimo Fred). Fu legittima difesa. Tanto che, raccontano i follower come un coro di tragedia greca, l’assassino fu subito prosciolto dalle accuse: aveva sparato perché la moglie era stata malmenata da Scotti. E la tragedia non finì qui: la donna «a seguito dei calci presi abortì successivamente».
Sulla pagina Facebook di Leporace, come spesso accade sui social, è poi scoppiata una polemica tra gli scriventi con accuse incrociate di dire «minkiate». L’unica cosa certa è che l’omicidio di Ciccio Fred Scotti, custode di Eros, il leone mio amico d’infanzia, avvenne il giorno di Pasquetta del 1971.
Le polemiche continuano finché non interviene Rossella Alighieri: «Ciccio ancora vive grazie al racconto del signor Leporace. Come in tutte le storie ci sono varie versioni da sentire dire, interpretare, idolatrare, denigrare. La vera storia di come morì zio Ciccio (mio padre era suo nipote) la conoscono lui che non c’è più, chi c’era e chi lo ha stretto tra le braccia fino all’ultimo respiro. Aggiungo che al “malfattore”, al “bullo” piacevano le donne... tutte e questa è stata la sua condanna a morte. Lui le amava, non ha mai alzato le mani su una di esse. Mi dispiace che lo si associ alla malavita cosentina, lui che beveva un bicchiere in più e litigava ed essendo coraggioso (vedi la storia del leone) si sentiva onnipotente... Però come ha detto poi lui stesso: mi hanno preso a tradimento».
Dante, l’omonimo di Rossella Alighieri, non avrebbe saputo chiudere meglio la questione.
Giovedì
Ho paura di essermi cacciato in un ginepraio pregando Paride Leporace di scrivere uno spin-off della sua Cosenza nel ’900 sulle vicende del cantante-domatore, personaggio mitico della mia città. L’ho fatto con le migliori intenzioni, ma che lavoraccio venirne a capo. Però è una grande storia, marqueziana più qualcosa di labirintico alla Borges, narratore di tangueros.
Scrive Franco Pichierri, altro follower di Paride: «Mitico Ciccio Fred Scotti… da ragazzi rimanemmo storditi per l’epilogo della sua esistenza». E fu davvero così.
Ieri
Su WhatsApp un compagno delle scuole medie, poi grande penalista, mi manda dalla Calabria la foto di classe dell’aprile 1968, un mese prima del famoso Maggio. La guardo e penso: «Così remiamo, barche controcorrente, risospinti senza posa nel passato». Il finale del Grande Gatsby. Fitzgerald lo scrisse un secolo fa. Sembra oggi.
Per scrivere ad Antonio D’Orrico: lettori@editorialedomani.it
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