Ogni mattina mi fermo a leggere le locandine dei giornali esposte davanti all’edicola. È una usanza tosco-ligure. Quando una vita fa lavoravo a Firenze ne ho dettate tante di locandine. È un’arte simile a quella, perduta, degli strilloni. Echi e suggestioni letterarie che arrivano dai titoli della settimana per la rubrica di Antonio D’Orrico e le sue cenette sentimentali con i lettori
Domenica scorsa
Ogni mattina mi fermo a leggere le locandine dei giornali esposte davanti all’edicola. È una usanza tosco-ligure. Quando una vita fa lavoravo a Firenze ne ho dettate tante di locandine. È un’arte simile a quella, perduta, degli strilloni. Dei titoli sparati oggi nella locandina il più divertente è “Trasforma casa di nonna in centrale della droga”. Sembra una versione nostrale di Breaking Bad.
Qualche giorno fa uno dei titoli della locandina era “Sindaca di Sarzana indagata per turbativa d’asta sulla gestione del teatro degli Impavidi”. Quando l’ho letto è scattato un flashback. Un’estate di circa quarant’anni fa andai con amici al teatro degli Impavidi per vedere una prova generale di Platonov, l’opera scritta da Cechov quando era ancora uno studente di medicina, perduta e ritrovata dopo la sua morte.
Io e quel gruppo di amici eravamo fan di Carlo Cecchi, l’attore e regista (ma lui preferirebbe essere chiamato capocomico), che dirigeva e interpretava quel Platonov. Cecchi era allora, ed è rimasto tuttora, il mio attore di teatro preferito. Uno più bravo di Carmelo Bene, per citare un mostro sacro di quella stagione scenica. Il solo, forse, che poteva dare del tu a Eduardo in termini di recitazione.
Di quel Platonov ricordo che il teatro degli Impavidi era bollente (la rappresentazione avvenne di pomeriggio) e che, per soprammercato, i personaggi della commedia cechoviana si lamentavano continuamente del caldo russo facendo aumentare a dismisura la temperatura già altissima percepita nel teatro di Sarzana.
Cecchi interpretava il protagonista come se fosse un Amleto e un Don Giovanni messi assieme. Era accidioso come sempre (è la sua cifra stilistica). E, come sempre, colorava la sua dizione con un’inflessione napoletana in omaggio a Eduardo, il suo maestro. Mi pare di ricordare che avesse dato alla rappresentazione un andamento giallo. E la cosa funzionava.
Il vicequestore Schiavone dei romanzi di Manzini è famoso per la sua scala delle rotture di coglioni (le più devastanti sono quelle del decimo livello). A me piacerebbe fare, invece, una scala dei grandi che ho incontrato nella vita. Al decimo livello (grandezza assoluta) ci sarebbe di sicuro Carlo Cecchi (e pochissimi altri).
Lunedì
Oggi i protagonisti delle locandine sono un “ventiseienne esibizionista”, che è stato prontamente denunciato, e “tre noleggiatori abusivi di ombrelloni” denunciati anche loro (ma le spiagge non erano vuote e in crisi?).
Prendo un caffè da Ciccio, storico locale sulla riva del fiume (qui venivano a cena Vittorini, Sereni e il resto della colonia di letterati in villeggiatura sul Magra), e sbrigo la posta dei lettori.
Scrive Alberto Paletta: «Perché ce l’ha tanto con Goffredo Fofi? Gli riconosca almeno due meriti: ha valorizzato Totò come grande, grandissimo attore (Totò. L'uomo e la maschera, Minimum Fax) e come critico letterario ha fatto riscoprire in Le nozze coi fichi secchi, L'Ancora del Mediterraneo, l’opera più sottovalutata di Carlo Levi, L’orologio, Einaudi, in cui si raccontano i giorni della caduta del governo laico di Ferruccio Parri e la consegna del futuro politico italiano alle due grandi chiese, la democristiana e la comunista. E semmai Fofi non era un prete ma, essendo di Gubbio, un frate francescano. Un saluto cordiale».
Sì, è vero, caro Paletta, Fofi era un frate e non prete (infatti prediligeva girare in sandali). Ma quando si atteggiava a scopritore della vera grandezza di Totò millantava credito. La vera sponsor del principe De Curtis fu Franca Faldini, che lo aveva conosciuto bene essendo stata sua compagna sulla scena e nella vita. Fu lei la reale autrice di Totò, l’uomo e la maschera e di L’avventurosa storia del cinema italiano, Feltrinelli, (bellissimo libro). La farina era tutta del suo sacco. Che donna straordinaria.
Martedì 12 agosto
Da bambino sognavo un lasciapassare come quello di cui Dumas parla nei Tre moschettieri, una specie di licenza di uccidere al portatore: «Il latore del presente ha fatto quello che ha fatto per ordine mio e per il bene dello Stato. 3 dicembre 1627 RICHELIEU».
Quattro secoli dopo, a quanto si capisce, un lasciapassare del genere è tornato in circolazione. Firmato Netanyahu e non Richelieu. I latori di questo permesso possono uccidere chi gli pare (giornalisti preferibilmente), e gli basta dire che era gente di Hamas per farla franca.
Per riprendermi ci vorrebbe un Martini. Il migliore sulla faccia della Terra è quello dell’Harry’s Bar di Arrigo Cipriani. Possiedo fortunatamente una copia di Prigioniero di una stanza a Venezia, Feltrinelli, il libro di Cipriani che svela il segreto del suo inconfondibile cocktail.
Ingredienti: gin («che per me è il Gordon’s», avverte Cipriani) e vermouth dry (la sua preferenza va al Martini dry). Quantità per sei persone: 730 g di gin, 20 g di vermouth. Versare i 20 g di vermouth nella bottiglia del gin. Tapparla e farla girare un paio di volte, metterla nel freezer lasciandola “cuocere” il più a lungo possibile. Quando arriva il momento, riprendere la bottiglia, versare una dose in un bicchiere (gelato) e «bere subito in profonda concentrazione, con gli occhi chiusi, il primo sorso». È questo, assicura Cipriani, il miglior Martini del pianeta. «Tutto il resto non conta: l’oliva, la cipollina, la buccia di limone, il lemon twist, non sono altro che scuse per far sembrare buono un Martini mediocre».
È un cocktail superiore a ogni altro. «Il Martini ha l’unico gusto secco che esista al mondo. Non è né dolce, né amaro, né aspro, né salato. È secco. La funzione del vermouth è solo quella di togliere il leggero gusto di ginepro del gin, ma non si deve mai sentirne la presenza, deve essere bevuto ghiacciato».
Nel libro Cipriani racconta anche il personale Martini di Gianni Agnelli, «metà gin e metà vodka e con una goccia di vermouth Stock». Il vermouth Stock all’Harry’s giustamente non lo tenevano. Agnelli insisteva nel chiederlo e Cipriani non ne capì il motivo fino a quando non scoprì che la Stock era di proprietà dell’Avvocato.
P.S. Colgo l’occasione per raccomandarvi un vecchio romanzo strepitoso. Lo scrisse James M. Cain (l’autore de Il postino suona sempre due volte), si intitola La ragazza dei cocktail, edizioni Isbn, ed è perfetto come il Martini dell’Harry’s Bar.
Mercoledì
Quando andò in Procura a Milano per essere sentito, vidi le foto di Manfredi Catella e decisi che era innocente. Cosa me lo faceva pensare? La splendida giacca grigia a doppiopetto che indossava. Un uomo così elegante non può essere colpevole, mi dissi. A rafforzare il mio libero convincimento è stata oggi la lettura delle nuove chat che dovrebbero provare i criminosi maneggi del costruttore. Ho scoperto che Catella per esprimere perplessità usa l’espressione «Bah e superbah». Assolto definitivamente. I procuratori spesso difettano di senso dell’ironia (che è il senso della vita).
Giovedì
Volevo lavorare alla seconda puntata di La vera storia di Ciccio Fred Scotti, domatore di leoni e cantante di canzoni della mala cosentina, spin off del libro Cosenza nel ’900 di Paride Leporace, ma mi è venuto il blocco dello scrittore. All’inizio mi sembrava una storia molto marqueziana (una specie di Cronaca di una morte annunciata). La presenza dei leoni consiglierebbe, però, un racconto alla Hemingway. Nello stile della premessa alle Nevi del Kilimangiaro: «Il Kilimangiaro è un monte coperto di neve alto 5895 metri e si dice che sia la più alta montagna africana. Vicino alla vetta occidentale c’è la carcassa rinsecchita e congelata di un leopardo. Nessuno ha saputo spiegare cosa cercasse il leopardo a quell’altitudine».
Sono fermo al bivio. Imboccare la pista marqueziana o quella hemingwayana? Aggiorniamoci la prossima settimana.
Venerdì
Non ho scritto nemmeno una parola, ma ho molto pensato a una commedia ambientata a Napoli, primi anni del secolo scorso (ispirazione Carlo Cecchi).
Nella prima scena della commedia pensata ma non ancora scritta, Totò ha sedici anni e recita al teatro Orfeo. Ogni sera Eduardo, che di anni ne ha quattordici, va a trovarlo in camerino alla fine della rappresentazione. Totò, ogni volta, si asciuga il sudore dagli occhi, li apre e dice: «Edua’, stai cca?».
Per scrivere ad Antonio D’Orrico: lettori@editorialedomani.it
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