Insegno Lettere, nella vita mi occupo essenzialmente di ricezione dei classici. Però ho fatto lo Scientifico. Allo Scientifico, devo dire, ho studiato un sacco di cose poi rivelatesi parecchio utili nella mia vita di umanista, e non solo nel senso di quel rigo celeberrimo, quasi fantascientifico e post-umano, che tutti citano dalla commedia altrimenti meno nota (e forse più pallosa) di Terenzio: «Homo sum, humani nihil a me alienum puto» – ce l’ho appeso, forse per esibire con coda di paglia il latino che utilmente ho imparato allo Scientifico, sulla porta dello studio all’università.

Hegel e gli hobbit

Una cosa umana che ho studiato assai allo Scientifico è l’inglese, e infatti lavoro negli Usa. Un’altra è la filosofia. Di filosofia non ero però altrettanto appassionato, sebbene quella disciplina, che ci raggiunse al triennio nel prestigioso bouquet delle materie non più per bambini, fosse chiaramente al vertice della gerarchia curricolare.

Le letterature in latino e appunto in inglese, al pari della storia dell’arte e delle scienze fisiche, naturali e infine siderali, si presentavano come prevedibili fioriture di basi linguistiche, tecniche e matematiche acquisite; la filosofia invece compariva come una faccenda inedita. Tanto che, nell’estate precedente al suo esordio nell’orario, la docente di Lettere ci assegnò un famoso, propedeutico bestseller, Il mondo di Sofia, per abituarci all’idea che esistesse.

Fino all’ultimo anno, comunque, quel che dicevano i filosofi (sempre maschi) secondo il manuale che ce li riassumeva mi pareva, da ragazzino strafottente che ero, o assurdamente elementare (tutto cambia, se pensi allora esisti, fate i bravi) o cervellotico al limite dell’incomprensibile. Poi arrivò Hegel e, da lì in poi, capii. Ricordo che l’attraversamento della soglia che mi fece umana, non più aliena, la filosofia, fu il risultato di una tempesta culturale e autobiografica perfetta. Imperversava su ogni medium Il Signore degli anelli, io giocavo di ruolo e, da elfo stregone lettore forte coi dvd della versione estesa della saga, mi sentivo al centro dello zeitgeist internazionale, bravo abbastanza in inglese da studiarmi pure il profilo storico di Tolkien, che compariva nel manuale in lingua sebbene non fosse in programma. Dal canto suo quello di filosofia, fin lì per me tedioso repertorio di esercizi mnemonici, d’improvviso introduceva la “dialettica servo-padrone” proprio attraverso (meraviglia!) gli hobbit della Contea. Quella cruciale nozione hegeliana, destinata ad aprire le porte a Marx, mi si offriva nell’emblema di una mitologica amicizia maschile: la bromance tra i semi-umani e anglofoni Frodo e Sam.

Tradurre per amore

Ricevo dall’Italia, nel giorno del mio compleanno, un finissimo libretto di poche dozzine di pagine firmato da Ottavio Fatica, il poeta cui dobbiamo la più incantevole versione italiana dei limerick di Edward Lear. Mi pare un segno del destino, giacché qualche anno fa Fatica, traduttore straordinario, voltò in italiano anche i ben più gravi, ponderosi volumi in cui Frodo e Sam, come illustrava il mio manuale di filosofia, esemplificano l’essenziale concetto che Hegel forniva alla tarda modernità – e alla mia prima vera curiosità filosofica.

Il libro in questione, proposto da Adelphi nella collana di rapide gemme “Microgrammi”, si intitola Lost in Translation. È un distillato d’autoscopia metodologica in cui, come nel mio manuale del liceo (e in fondo come nella Fenomenologia dello spirito vera e propria), si parte spesso dalla familiare rilevanza immediata di alcuni personaggi che ci sono già cari per raggiungere, con l’evidenza figurale di una narrazione fulminante, l’astratta verità della teoria.

C’è un popolare tropo inglese – in Shakespeare, Mary Poppins, Harry Potter, Doctor Who – per cui, come in certe pitture ferraresi di Giorgio de Chirico, l’interno (di una mente, di una borsa, di una casa, di una pittoresca cabina telefonica) può rivelarsi ben più sconfinato dell’universo che chiude al suo esterno. Leggere Lost in Translation dà la medesima vertigine: è un libro piccolissimo e tuttavia, come da una carrozza del metrò di Tokyo o dall’auto di un clown, sembrano poterne uscire infinite amabili persone, lette e tradotte. Due di queste, come dicevo, sono gli hobbit del mio cuore. Fatica, con penna pirotecnica, li sbozza al principio di un capitolo cruciale, intitolato “Lo sherpa e la parrucchiera delle dive”: «Samplicio», terrestre spalla del suo padrone, che letteralmente se lo mette in spalla sulle pendici del Monte Fato, «allegorico Monte Carmelo che è anche un realissimo Calvario». È forse la mia scena preferita. Frodo, esanime, non può proseguire, né può tuttavia cedere il fardello dell’anello al suo pur fidato amico. Sam si fa dunque, genialmente, cavalcatura: uno sherpa, nella brillante metafora di Fatica.

Ho sempre ammirato la sacrificale logica, la capacità di problem-solving di questo servo indispensabile, che invece di esprimere il conflitto mortale immaginato da Hegel si sobbarca del suo comandante, pur non prendendone il controllo, con fraterno (se non materno) amore. Ecco, forse se avessi fatto il Classico avrei capito invece che la questione, in questa pagina bellissima di Tolkien (e di Hegel, e di Fatica) non è il risolvere un problema, far tornare i conti. È semmai il prendersi carico, il farsi Enea, non per pietà d’un venerabile genitore ma per amore di un eroico pari. È, insomma, il tradurre.

Amici di sella

Da un altro recente e splendido libro sulla traduzione, Translating Myself and Others di Jhumpa Lahiri, ho scoperto che “traduzione” è d’altronde anche il lemma tecnico che Gramsci (un altro che di dialettica servo-padrone se ne intendeva) adoperava per parlare del trasporto ufficiale dei carcerati come lui da una prigione all’altra.

Tradurre, si sa, è etimologicamente una faccenda di trasporti. Essendo cresciuto maschio mi pare di non esser mai stato trasportato (di là dall’infanzia) se non al mare, per lotte acquatiche l’uno in spalla all’altro. A parte quelle allegre parodie di battaglie, in cui destrieri e cavalieri si scambiavano, credo di non aver mai preso in braccio, o in spalla, un amico. Né sono certo di invidiare il martirio a due dei miei pur amati hobbit – Sam d’altronde, se la compagnia dell’anello non fosse stata costretta ad attraversare le infauste profondità di Moria, si sarebbe ben tenuto dietro il suo cavallo, che forse più felicemente avrebbe tradotto Frodo, l’anello, e Sam medesimo al compimento del loro pellegrinaggio.

Mi sembra però che anche condividere una sella abbia a che fare con la traduzione, e con l’amicizia tra maschi: un esercizio di ascolto reciproco, di fiducia, d’immedesimazione. Non lo dico perché abbia mai cavalcato in coppia ma perché al liceo, oltre a una passione per Tolkien, avevo un motorino. Mi pare che fu proprio nell’estate di passaggio tra il terzo e il quart’anno, quello in cui avrei studiato Hegel, che trascorsi un mese a San Felice da un amico del cuore, ritrovandomi, lontano da Roma, a piedi. Emanuele, che invece aveva il motorino lì, doveva dunque portare anche me in sella. Così tante immagini fulminanti, da Vacanze romane a Jack Frusciante è uscito dal gruppo, ci illustrano la condotta di una coppia di amanti sullo stesso motorino: lei leggera ma avvinghiata, lui stabile e rassicurante, come Jasmine e Aladino sul tappeto volante. Lo stereotipo del tirocinio alla velocità, al rischio, non si applica però a due amici maschi, e senza un anello da gettare in un vulcano è difficile giustificare un completo affidarsi l’uno all’altro. Infatti, dietro a Emanuele, quell’estate mi comportavo con padrona lucidità, come guidassi anch’io: assecondavo le curve, guardavo la strada, contribuivo all’equilibrio del centauro bicefalo in cui, rincasando tardi dalla spiaggia, ci trasformavamo. Immagino che in groppa a un cavallo al trotto, o sulle squame di un drago sinuoso, avremmo contratto all’unisono i medesimi muscoli, e che nemmeno le mani sulle redini (sul manubrio) potessero definitivamente distinguere il traduttore dal tradotto.

Quando Angelica fugge, nel più ironico passaggio del primo Canto dell’Orlando furioso, Rinaldo e Ferraù smettono di combattere per montare sullo stesso palafreno e inseguirla insieme, tradotti dal comune desiderio più che da una vera amicizia tra loro. Mi domando se quei due rivali finirono, come me ed Emanuele, per infrangere i codici della maschilità tradizionale facendo quel che gli amici, fuori dal cooperativo spazio traduttorio di una sella, si vergognano di fare: cantare all’unisono nel vento, parlarsi ad alta voce nell’orecchio, abbracciarsi per non perdere l’equilibrio, nella confidenza assoluta del tradursi a vicenda che si dà solo a una certa velocità.

© Riproduzione riservata