Quelle calze bianche sporche. Quelle magliette che, sulla schiena, si decorano di schizzi rossastri. Quel terriccio che si appiccica alla suola zigrinata delle scarpe e, se ti dimentichi di sciacquarle prima di entrare nello spogliatoio o a casa, si deposita ovunque come una testimonianza silenziosa di una vittoria o una sconfitta. Daniil Medvedev, ad esempio, detesta tutto questo. Colui che ormai è la vittima seriale di Jannik Sinner sopporta con molta fatica di dover giocare sul quella che viene comunemente definita la terra rossa. Prima di vincere, abbastanza sorprendentemente, a Roma l’anno scorso non faceva mistero del suo desiderio: saltare a piè pari quell’insozzatura delle calzature e dell’outfit per riservare le sue prestazioni alle più contemporanee e soprattutto pulite superfici sintetiche.

Eppure la terra rossa che da domenica 7 propone a Montecarlo il primo grande appuntamento è la più poetica e la più operaia delle superfici. L’erba anglosassone è un’erede dei pomeriggi trascorsi a fine Ottocento nei giardini dell’Oxfordshire tra ombrellini, gonne e pantaloni bianchi; quello stesso bianco ancora obbligatorio sui prati di Wimbledon. Il cemento, in tutte le sue declinazioni, secondo molti la sede dell’oggettività del gesto tennistico, è il playground dell’accesso totale, il centro commerciale che ha preso il posto dei negozietti di quartiere. Ma la terra è il luogo della fatica.

È il suolo su cui l’atleta entra in contatto diretto con la materia sui gioca, come la sabbia per il saltatore in lungo. L’uno non può far nulla se non interpreta l’altra. È il luogo mutevole come la vita dove il tennis diventa lo sport degli sporchi gesti bianchi. Una sede della memoria se è vero come è vero che è l’unica superficie dove la pallina cadendo lascia un segno tangibile del suo passaggio. È una sede dove è impossibile non applicare l’arte dello scivolare: gli scivolamenti cui assistiamo oggi su cementi chimici non sono che la brutta e violenta copia di quelli che personaggi come Guillermo Vilas, Yannick Noah o Rafa Nadal (a Montecarlo non ci sarà, chissà quando lo rivedremo) hanno consegnato alla storia. È una superficie riservata e talvolta infida, come la vita.

Andre Agassi - ANSA

Gli americani la odiano

Medvedev non lo sa ma ha illustri precedenti nella storia di chi si sporca con la terra. Rosso Malpelo, ad esempio, il personaggio della novella di Verga che «era sempre cencioso e sporco di rena rossa» dato che lavorava in una cava di una terra di origine vulcanica: un tipo di terra che non potrebbe funzionare come suolo per il tennis, visto che è duro e troppo ricco di frammenti spigolosi.

Quando Andre Agassi abbandonò per la prima volta gli Stati Uniti per venire a giocare sulla terra europea disse che manco riusciva a colpire la palla e che i piedi gli parevano affondare nel fango. «Tutti i torti non li aveva – spiega a Domani Paolo Bertolucci, vincitore della Davis nel ’76 con Panatta, Barazzutti e Zugarelli, grande interprete del doppio, del gioco sul rosso e oggi apprezzato talent televisivo – la terra di Roma in quegli anni era una palude. Molti, americani soprattutto, non sapevano cosa farci, lì sopra. Dopo due scatti e due frenate si ammucchiava, e dopo qualche minuto il campo era costellato di montagnole».

L'Italia di Davis sulla terra di Roma: da sinistra Panatta, Zugarelli, Barazzutti, Bertolucci e il capitano Pietrangeli - ANSA

Gli americani la terra la conoscevano: fino al 1977 lo Us Open si disputava a Forest Hills, nel Queens, su terra verde: che sarebbe una “spremitura” di basalto e non di argilla come quella rossa, molto più rapida e un po’ meno sporcante. Oggi quella superficie, tra i tornei del circus, resiste solo a Charleston, in South Carolina, dove ha sede un appuntamento femminile.

A Houston invece, proprio in questi giorni, si è giocato un torneo maschile sul rosso ma tale è la desuetudine ad allestire campi del genere che i giocatori si lamentano per la scarsa qualità del suolo: la terra sparisce, si volatilizza e lascia spazio al cemento sottostante. A Santiago del Cile, in inverno, stesso problema: con la pallina che appena toccava terra rimbalzava a caso, deviata da un suolo che invece di essere piatto assumeva l’ondulazione in formato bonsai di dune sahariane. Perché la terra questo chiede: di essere preparata a curata. «Il che – aggiunge Bertolucci – è proprio agli antipodi rispetto al sentimento di oggi che io vedo dappertutto. Non curiamo più nulla, non si cura più nulla e forse anche nessuno. Forse è per questo che la stagione sulla terra è diventata così marginale nel calendario: fa parte di un’altra epoca, di un altro mondo in cui le cose si aggiustavano, non si buttavano via appena si guastavano. Il cemento è ignorante, subisce, parla la lingua dei colpi violenti, del cotto e mangiato. La terra parla la lingua della strategia, del tocco, della fatica».

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La terra di Parigi e quella di Roma

I campi in terra costano: vanno costruiti come Dio comanda (due strati che poggiano su un fondo di ghiaia), vanno puliti, conservati, bagnati di frequente. E quando nessuno ci gioca non è che si smonta la rete e diventano un campetto per il basket o l’hockey senza ghiaccio: restano dormienti. Non sono funzionali a nessuna versione sportiva dell’economia di scala.

Quasi ogni campo ha una genesi sua propria. A Parigi i mattoni che vengono tritati e che creano il colore rosso sono nuovi: ma sono usciti dalla fabbrica di Oise, vicino a Parigi, con qualche imperfezione, e non sono stati ritenuti degni di un impiego nell’edilizia. Per i campi del Roland-Garros servono 80 tonnellate di mattoni l’anno, per tutta la Francia 200 tonnellate. Ma quei campo sono si e no l’11% del totale, una contraddizione per il Paese che organizza i campionati del mondo sulla terra: ma il 70% dei tornei si disputa sul cemento e i ragazzi devono allenarsi sul duro, se vogliono avere qualche chance di replicare le gesta di Noah.

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La terra dei campi del Foro Italico a Roma invece si crea grazie a mattoni vecchi per lo più provenienti da vecchissime fattorie abbattute nella Bassa Padana. Conferiscono ai campi un rosso più vivo di quello parigino. Sinner, Djokovic e i loro compari giocano su campi che portano in sé le storie delle cascine della pianura, quelle raccontate da Bertolucci – Bernardo, non Paolo – in Novecento. Nessuna colata di acrilico su cemento potrà mai ambire a nulla del genere.

«Sinner, Berrettini, Sonego e Musetti: tutti i nostri ragazzi sono nativi terraioli. Poi si sono evoluti ma le nostre radici sono quelle – spiega Bertolucci (Paolo) – Jannik però dovrà adattarsi perché scivolare a Montecarlo, Roma o Parigi è differente che su cemento. Uno dei suoi punti forti su quelle superfici è che scivolando frontalmente risparmia un tempo ed è già pronto per il colpo successivo. E lo fa quasi senza piegare le gambe. Io dovevo colpire e poi ripartire col piede opposto: per di più calzando scarpette con la suola a buccia d’arancia che quando ti muovevi non sapevi bene dove ti saresti fermato. E se non ti fossi fermato, saresti caduto». Ancora una volta: come nella vita.

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