Sui social i ricchi hanno stufato: è la rivoluzione della normalità

Dacché possa ricordare, infilatomi nel letto, leggo per addormentarmi. Non soltanto l’idea che sia questa l’ultima azione della giornata mi piace, ma, ormai, non riesco a prendere sonno senza aver fatto fuori qualche pagina. Da qualche mese, però, ho un nuovo vizio, e non riesco a togliermelo: guardo i video di una famiglia che su Instagram e TikTok (ma io TikTok non ce l’ho, e uso Instagram) posta la propria giornata, un reel alla volta. Iniziano appena fuori dal letto, ancora in pigiama, e, un video ogni tre ore (la frequenza è impressionante), condividono tutto. Non fanno nulla di speciale, non dicono nulla di interessante. Eppure non riesco a scollarmene: ho un’ossessione. Naturalmente ce ne sono tantissime, di famiglie che pubblicano la loro quotidianità, sia italiane sia straniere, e sono molto seguite. Ma si rifanno alla stessa estetica delle influencer tradizionali. Sorrisi stupendi, corpi stupendi, giornate stupende. Vite stupende. Tutto stupendo. Case linde e luminose, cucine in marmo, con cesti di frutta fresca ed esotica, in cui vengono preparati pasti salutari (tipo centrifugato di sedano, carote gialle del Perù e spirulina) da coppie biondissime, magrissime e dai denti bianchissimi che sono riuscite a procreare figli biondissimi, magrissimi e dai denti bianchissimi. No, nossignore. La famiglia in cui trova sfogo la mia nuova ossessione è diversa. E di loro so ogni cosa. So con quali cugini hanno litigato, con quali vanno così d’accordo da invitarli a pranzo ogni sabato e dove vanno al mare, so quand’è il compleanno di quello o quella, com’è passata l’otite di quell’altro e quale supermercato preferiscano per i detersivi e quale per gli alimentari, so qual è il cantante preferito di figlia uno e figlia due (Tananai), perché figlia tre non può più usare i pastelli (se n’è infilato uno nel naso, ed è finita in ospedale) e perché figlia quattro è stata bandita dal corso di danza (ha morso delle compagnette). Mi ci sono affezionato. E guardo tutto ciò che fanno. Una vita normale Abitano in Sicilia. Marito e moglie, attorno ai quaranta, e quattro figlie femmine, età compresa tra i 13 e i sei. Accento pesantissimo, comunicano tra loro quasi esclusivamente urlando, cucinano da mattina a sera: da siciliano mi sento a casa. Il dialetto lo usano spesso, tant’è che a volte chi guarda questi video con me, se non è siciliano, capisce poco. Litigano per ogni cosa in modo eccessivo, proprio esagerato: si strillano addosso le cose peggiori, ma passano due ore e sembra non sia successo nulla. Friggono tutto quello che capita loro sottomano e, lo giuro, pranzerei in casa loro ogni giorno: è tutto squisito anche se pesante; i pranzi sono enormi, portate a non finire, olio ovunque, pentoloni di pasta alla norma che vengono rimestati a fatica, palazzi alti così di cotolette fritte, pistacchio e formaggio e salumi come se piovesse. Sbrigano le faccende del quotidiano con praticità, ridendosela parecchio: la spesa (al supermercato ci vanno tutti i giorni, anche se non ho capito perché), le poste per ritirare dei pacchi (Shein come religione), il medico. E poi, ancora. Passano l’aspirapolvere per tutta la casa tutti i giorni, stendono i panni (a marzo si è rotta l’asciugatrice, un dramma), rifanno i letti. Ma si divertono pure, chiaro. Escono per una pizza (ho perso il conto delle pizze che li ho visti ingurgitare), un gelato, una passeggiata alle giostre; lì urlano come non fanno in nessun altra occasione, ché faticano a sentirsi tra loro, e mangiano schifezze a ruota. Non rispettano i canoni estetici imperanti, non vestono firmati (e, anzi, spesso ci portano con loro al mercato per comprare le magliette, i jeans di cui hanno bisogno) e non vanno in vacanza a Ibiza o a Portofino (la spiaggia sotto casa va benissimo). Non fanno delle unboxing (Dio ce ne scampi), non hanno un cane dal pelo lucido e piccolo abbastanza da poterlo infilare in borsa (hanno un meticcio bruttino ma simpatico) e non vanno a provare il nuovissimo dolce in quel nuovissimo bar. Una vita normale. Come la mia, come quella di molta gente. Però sui social fanno numeri da influencer (centinaia di migliaia di follower). E non sono i soli. Stretti tra ansia e stanchezza, i trentenni hanno meno amici Insofferenza verso la perfezione Perché la vita comune, d’un tratto, ci attira? E perché allo stesso tempo sta montando una certa insofferenza per le e gli influencer? Stiamo iniziando a stancarci di loro? Le influencer che bevono centrifugati a Bali, che hanno le giornate scandite dalla skincare e i brunch con avocado toast (quanto avocado dev’esserci al mondo per saziarle tutte?). I gym-bro in palestra alle undici del mattino, ad abbronzarsi e leggere Kundera su uno yacht ormeggiato a Capri (Kundera ti odierebbe). Ecco, loro: ci stanno stancando? Forse il fascino dell’influencer tradizionale si sta esaurendo. Logorato anche da fatti concreti. Il Pandoro-gate di Ferragni, le foto di Fedez in yacht con il presidente del senato Ignazio La Russa (e suo figlio Leonardo) e la ministra Daniela Santanchè (esponenti di quella destra che il rapper ha criticato per anni). Ma il nostro spasmodico desiderio di farci i fatti degli altri, travasarci in vite che non sono la nostra, per citare Carrère, è più vivo che mai. Così ci rivolgiamo ad altri. Ed è il turno della normalità. La narrazione degli influencer sta rivelando la sua natura artificiale. Il loro storytelling è sempre più percepito come filtro proteico tra la realtà e una storia evidentemente fasulla. E se il filtro si rompe, l’illusione svanisce. Allora avviene un ribaltamento: il pubblico desidera autenticità e non più perfezione. La perfezione esasperata diviene repellente, e si innesta il concetto del “social reale”, uno storytelling che non nasconde le imperfezioni e costruisce intimità (il contrario della propaganda del lusso: quasi un giornalismo sociale). Assistiamo così a un cambio di paradigma: il capitalismo visivo, delle aspirazioni vive oggi la sua crisi. Non basta più mostrare successo; serve una narrazione radicata nel quotidiano, nei limiti, nella precarietà. È l’“autenticità del vulnerabile” a guadagnare valore. Ferragni e compagnia recitano lo stesso copione: lusso, viaggi e abbronzature. Ma il pubblico, specie i venti-trentenni precarizzati, non vuol più copie lucide: vuole feltro, sudore, cose che puzzano un poco, cose bruttine, sgraffiate, logore. Cose reali. Volere non è potere (tuttalpiù è provarci, e va bene così) Autenticità emotiva Secondo una ricerca pubblicata su Frontiers in Psychology, la continua esposizione a contenuti “aspirazionali” genera ansia, frustrazione e la celebre Fomo (Fear of missing out: paura d’essere tagliati fuori). Ma la Fomo, come ogni emozione troppo a lungo sollecitata, diventa fastidio. Così l’estetica della perfezione alla lunga ci stanca anche perché ci esclude. E oggi, in un contesto economico, lavorativo, sociale così instabile, abbiamo bisogno dell’opposto: di sentirci inclusi, compresi, riconosciuti: vogliamo vederci, ma il mare non riflette il mare, scrive Anna Maria Ortese, ed ecco che ad aiutarci arrivano loro, gli influencer che non lo sapevano: in loro, un po’, ci rivediamo. Secondo alcuni studi, l’autenticità emotiva (intesa come vulnerabilità, trasparenza e imperfezione) aumenta in noi la percezione di affidabilità. Detto altrimenti: ci fidiamo di chi non vuole venderci niente. Persone così sui social fanno crescere in noi la “parasocialità affettiva”: la sensazione di essere amici, complici con qualcuno che conosciamo solo tramite lo schermo. Meccanismo che, pare, non si attiva (più?) con gli influencer. C’è chi parla di “realismo accessibile” e chi di “influencer umani”. La verità è che è nata un’estetica nuova: l’estetica povera. O forse è tornata quella neorealista, a cui eravamo affezionati. Comunque sia, si tratta di una rinuncia cosciente all’aspirazionale, al desiderio di raggiungere lo status che per anni abbiamo visto nelle storie degli influencer vecchio stampo. Tutto in favore del riconoscibile. Niente filtri, lussi, nessuna regia: solo una vita qualunque, raccontata con onestà. È una scelta controculturale, quasi politica: rifiutare la messa in scena del benessere , valorizzare la sopravvivenza quotidiana. Io esisto anche se non sono interessante per il mercato. Chiedimi se sono (in)felice: le domande degli adolescenti sui social