Il fatto che nella versione italiana degli Aristogatti (1971) il protagonista maschile si chiami Romeo ha varie implicazioni: il fulvo gatto di strada ricorda i gatti che popolano i luoghi più pittoreschi di Roma, e l’accento romanesco (“Romeo, er mejo der Colosseo”) lo caratterizza come piacione, buono e premuroso, per carità, ma pur sempre piacione (forse vittima inconsapevole di un sistema in cui la performance di genere compensa le insicurezze dell’individuo?).

Ma se il nome evoca Roma, l’onomastica chiama in causa anche il Romeo di Shakespeare, o meglio, il Romeo di Giulietta, visto che, come ci ricorda il titolo del film di Baz Luhrman, Romeo + Juliet del 1996, i due innamorati sono una cosa sola.

“Romei” trans-storici

Certo, tra l’estroverso Romeo romanesco e l’introverso DiCaprio all’apice della sua efebia tardoadolescenziale la distanza non è poca. Se quello degli Aristogatti evoca la mascolinità adulta di un Romeo alla Leslie Howard (che ne ha quarantatré quando interpreta il personaggio nel film di Cukor del 1934), il Romeo di Luhrman segue la via dello scandalo zeffirelliano del 1968, quando – per la prima volta nella storia del cinema – Romeo e Giulietta furono interpretati da attori di età prossima ai personaggi originali.

Tra risveglio giovanile (epocale?) dei sensi e nudità, il film di Zeffirelli fu considerato non adatto a spettatori troppo giovani: per loro, meglio gli Aristogatti.

Lo scandalo sarebbe stato peraltro inconcepibile ai tempi di Shakespeare, non solo perché la vita sessuale di uomini e donne iniziava presto, ma anche perché, nella Londra di fine Cinquecento, era vietato avere attrici in scena.

A fianco di chi interpretava Romeo avremmo visto, come Giulietta, un altro uomo, più giovane e possibilmente imberbe. L’espediente parava le accuse di immoralità da sempre associate al mondo del teatro – accuse che, da sempre, sono rivolte in primis alle donne coinvolte nell’arte scenica: ebbene sì, anche il teatro è, a quanto pare, cosa da maschi… Ma l’equivoco di genere resta in agguato: l’occhio umano lo cerca, lo scorge e se ne compiace.

Che il genere (maschile, femminile) sia una costruzione performativa era cosa chiara agli spettatori elisabettiani abituati a vedere in scena attori (uomini) interpreti di ruoli femminili che, per ingannare altri personaggi, si vestono da uomini; e se si ha l’impressione di perdere il conto dei tra(ns)vestimenti, nessun problema: l’effetto è voluto.

Virginia Woolf prende il concetto alla lettera: ci racconta di Orlando, giovane uomo che, notte tempo, si sveglia donna – insomma, un Romeo che diventa Giulietta. Tom Stoppard, meno letterale (o forse più letterale?) riconduce la performance dell’identità di genere al gioco teatrale delle parti: in Shakespeare in Love (1998) Viola, cui non è concesso di recitare, finge di essere Thomas e, come tale, si appresta a interpretare Romeo; quando al ragazzino scritturato per il ruolo di Giulietta si rompe la voce, Viola (che nel frattempo ha intessuto un affaire con Shakespeare) lo sostituisce e interpreta la parte a fianco del poeta che recita Romeo.

Con i due amanti sulla scena teatrale, realtà e finzione si sovrappongono sciogliendo l’impasse drammaturgico in chiave rigorosamente eteronormativa – almeno agli occhi di noi spettatori esterni, poiché per il pubblico interno al film Viola resta un giovane uomo, abile interprete di ruoli femminili.

L’opera di Bellini

Come in teatro, anche all’opera il genere che conta (se e quando conta) non è quello dell’interprete, ma quello costruito dall’interprete, con la voce e con il corpo, per il personaggio. Ce lo ricorda la recente e acclamata produzione scaligera dei Capuleti e i Montecchi di Vincenzo Bellini, opera composta per la Fenice di Venezia nel 1830.

In linea con la tradizione pre-ottocentesca, che voleva giovani protagonisti maschili interpretati da voci acute, Bellini assegnò la parte di Romeo al contralto Giuditta Grisi. Finita l’èra dei castrati, in cui l’eroe svettava vocalmente nei territori che il pieno Ottocento borghese avrebbe riservato alla primadonna, il testimone passava a talentuose colleghe che inclusero spesso ruoli en travesti nel loro repertorio (tanto Pasta quanto Malibran fecero di Romeo un cavallo di battaglia).

Se per Giulietta e Romeo (1796) Nicola Zingarelli aveva scritto la parte di Romeo per il castrato Girolamo Crescentini, già l’omonimo dramma di Nicola Vaccaj (1825) affidava il ruolo al contralto Isabella Fabbrica. Ma quando il travesti declinò in nome del realismo (Berlioz non credeva che le passioni di Romeo potessero aver luogo «nell’anima di un eunuco»), un’opera come I Capuleti e i Montecchi non poté che uscire dal repertorio.

Detto altrimenti, una netta distinzione dei generi vuole che Romeo diventi incontrovertibilmente maschio, cioè tenore; ovvero, che diventi tenore, cioè maschio.

Se al diktat si adegua prontamente il Roméo et Juliette di Gounod (1867), l’onda lunga della polarizzazione vocale dei ruoli arriva fino alla prima ripresa novecentesca dell’opera di Bellini alla Scala (1966).

A due passi dal Sessantotto, Claudio Abbado affida la parte di Romeo a un tenore. Proprio negli anni in cui Zeffirelli restituisce agli amanti di Verona la loro fluida identità di ragazzini in tumulto ormonale, il Romeo tenorile voluto da Abbado inquadra il dramma nella rassicurante cornice dei rapporti uomo-donna sanciti dalla tradizione operistica.

Che il travesti, come suggerì ironicamente Fedele D’Amico, potesse suscitare ancora “ripugnanza” (erano pur sempre i democristianissimi anni Sessanta…) fa sorridere, soprattutto quando si pensa al rinnovato successo della versione originale dell’opera belliniana nei decenni a seguire.

Emblematica, a questo proposito, la copertina dell’incisione del 2009 con Anna Netrebko ed Elina Garanča (cercatela su Google se non la conoscete), dove la complicità fisica tra una Giulietta iper-femminile e un Romeo sensualmente androgino coinvolge l’osservatore (ascoltatore, si perdoni il lapsus!) nell’eterno gioco di specchi deformanti che è il rapporto identitario tra interprete e personaggio.

L’allestimento scaligero

Sulla questione invita a riflettere, in modo meno glamour, ma forse più sottile, il nuovo allestimento scaligero. Adrian Noble sposta l’azione in un novecento grigio fatto di violenza e tensione civile.

Se l’ambientazione, che occhieggia agli anni Trenta, è volutamente vaga, la regia evidenzia un elemento centrale dei Capuleti e i Montecchi: Giulietta, qui interpretata dall’eccellente Lisette Oropesa, è l’unica donna, vittima di un mondo dominato da quella che oggi si definirebbe mascolinità tossica, un mondo in cui la parola del padre vale non perché sia giusta, ma perché improntata a una spietata legge del taglione che non lascia spazio ad alcuna forma di empatia, perdono o redenzione.

Particolarmente riuscita, in tal senso, la splendida sortita («Eccomi in lieta vesta»): la vestizione prima dell’imminente matrimonio forzato fa della giovane donna una statua sacrificale, precoce anticipazione del suo destino tragico. La prossimità del registro vocale le avvicina il Romeo della bravissima Marianne Crebassa, in bilico costante tra sfrontatezza pubblica e intimità lirica.

Un ruolo maschile, quello di Romeo, che, nella partitura di Bellini, si fa letteralmente transizionale: quando i due innamorati cantano all’unisono nel finale del primo atto («Se ogni speme è a noi rapita»), il loro amore diventa resistenza, preludio all’atto d’accusa che chiude lo stringatissimo ed efficace finale dell’opera.

Diversamente da Shakespeare (ma sappiamo che il libretto di Felice Romani non attinge alla fonte originale), la morte dei due amanti non risolve la faida, ma espone l’oltranza vendicativa del patriarcato.

Che l’incisiva bacchetta che ha magnificamente sviscerato i chiaroscuri della densa partitura sia stata quella di Speranza Scappucci, prima donna a dirigere in Scala un’opera di repertorio, ci ricorda (c’è ancora bisogno di farlo), che anche il direttore d’orchestra è un ruolo e non un’identità di genere.

© Riproduzione riservata