Nel saggio Un ricordo del 1946, il critico Giacomo Debenedetti descrive la «bravura trascendentale» di Tommaso Landolfi attraverso un’immagine che offre una precisa idea della sua acrobatica opera: «Landolfi non è uno che scagli la pietra e nasconda la mano; mostra anzi la mano, ma intenta ad altro gesto: quello, poniamo, di guardare l’orologio o di fare le ombre cinesi». Debenedetti individua proprio la sua capacità di ondeggiare continuamente tra luce e ombra, la sua scelta di mettere «tutta la chiarezza al servizio del massimo di procurata oscurità».

Anche Italo Calvino, che compilò un’antologia landolfiana, scrive che nei suoi libri vive il desiderio di «lasciare nell’opera qualcosa di non risolto, un margine d’ombra e di rischio». E pure Landolfi stesso sembra ritrarsi in maniera simile attraverso il personaggio di un suo racconto: «Astuto o disgraziato che fosse si capiva bene che voleva soltanto nascondersi dietro quelle parole, che lasciava cadere quella cortina di parola come la seppia s’annuvola»

Regole imprevedibili

Probabilmente anche questa peculiare condizione di oscurità rischia di generare al primo incontro con la sua opera un sentimento che mescola attrazione e repulsione, perché non sempre le regole del suo gioco letterario sono limpide, regole che affondano in un’imprevedibilità che è la stessa del gioco d’azzardo, a cui spesso si dedicava («Ti prego, ti scongiuro di non tergiversare, se non vuoi che torni a casa accompagnato dai carabinieri» scrive all’editore Vallecchi chiedendo un prestito dal casinò di Sanremo).

Certo è che, come ha sottolineato la figlia Idolina (affezionata curatrice delle opere paterne a cui si deve la possibilità di leggerle per intero presso un unico editore, Adelphi), i libri dello scrittore nato a Pico nel 1908 possono apparire avulsi dal clima storicistico-realistico in cui vennero pubblicati e, come testimoniano le lettere dello scrittore, egli «non conosceva i dimenamenti per conquistarsi favori» anche per un carattere aristocratico (quelle erano le sue origini famigliari) che gli ha sempre impedito di tessere intrighi. Questa situazione è lampante se si considera per esempio ciò che Landolfi pubblica intorno agli anni della Seconda guerra mondiale, nel pieno quindi del realismo e del canone partigiano della narrativa resistenziale.

Nel 1945 esce Le due zittelle, che nel gioco linguistico del titolo, le due “t”, svela subito il suo sperimentalismo e il distacco dall’italiano contemporaneo e dalla sua cultura imperante, storia di una «scimia» che inizia a comportarsi come un essere umano, attratto dalle zittelle e protagonista di pratiche barbare nella chiesa del paese, mentre nel 1947 è la volta dell’eccezionale Racconto d’autunno che trae origine dai fatti dell’ultima guerra mondiale, ma si distacca dal tipo di narrazione divenuto immediatamente canonico, sviando dalla Storia per condensarsi in una vicenda puramente romanzesca di amore e di morte che si svolge in un «cupo maniero».

Se dunque l’opera di Landolfi si rivela inattuale all’interno dei paradigmi maggioritari del Novecento, come testimonia l’ardita sperimentazione linguistica e il ricorso frequente al fantastico (che però straborda dai confini del genere poiché Landolfi parte sempre dal reale e al reale fa sempre ritorno), la natura della sua opera si rivela in realtà perfettamente aderente ai dubbi più radicali che abitano l’animo umano, in particolare per quanto riguarda il valore del linguaggio, la sua possibilità e adeguatezza nel descrivere il mondo e la sua capacità di trasferire sulla pagina le sollecitazioni interiori (pure così si possono spiegare le complessità e gli arcaismi che abitano una prosa che tenta continuamente di oltrepassare i propri confini).

Un simile sforzo conoscitivo è diffuso in tutte le opere di Landolfi, traduttore e autore di racconti e romanzi, poesie, elzeviri e tre libri autobiografici che offrono la preziosa occasione di frequentare il suo pensiero mentre si fa, prima di trovare una precaria stabilità.

Per provare a comprendere la pervasività di tale ricerca si può pensare per esempio a ciò che accade nel racconto La muta (in Tre racconti, 1964), dove una giovane ragazza viene uccisa violentemente da un uomo e dove il mutismo diviene simbolo di un impossibile possesso del linguaggio da parte dell’assassino costretto all’omicidio, o in Dialogo dei massimi sistemi (1937), dove la ricerca disperata del protagonista sul linguaggio sfocia in una incomunicabilità che porta alla pazzia.

I diari

Altrettanto importanti da questo punto di vista sono i tre diari, LA BIERE DU PECHEUR (1953), Des mois (1963) e Rien va (1967), dove il lettore ha la ghiotta opportunità di seguire gli itinerari scoscesi e imprevedibili della scrittura landolfiana, libri in cui la forma diaristica perde le caratteristiche classiche (già nel racconto Cancroregina questa forma subisce una contaminazione con la narrazione fantastica, in una sorta di preludio fantascientifico) e acquisisce un nuovo andamento dove l’afflato saggistico si coagula in un coacervo dove non è semplice isolare eventi realmente accaduti e fatti di finzione: «Invero», confessa lo scrittore, «queste due ultime giornate sono inventate di sana pianta. D’altronde è appena necessario avvertirlo, né c’è lettore un po’ fine che non se ne avvedrebbe. Io devo ormai essere sincero: non so neppure materialmente, se queste siano invenzioni».

In queste pagine Landolfi riflette sul fallimento del linguaggio nel descrivere la realtà («Ho sciorinato tante parole ma nessuna di quelle che avrei voluto»), sull’impossibilità di portare a termine il compito prefissato, cioè indagare il legame tra letteratura, vita e verità («Tutto si potrà trovare nelle passate opere e in me, fuorché… la vita») e si diverte a depistare malignamente i lettori e i critici della sua opera.

Il risultato di questa lotta è un corpo a corpo tra la scrittura e quello che questa non può tradurre sulla pagina e tutta l’opera di Landolfi non è che una riflessione continua sul fallimento del linguaggio perché la verità è irraggiungibile ma necessaria e di fronte a essa la letteratura «è impotente a stringerla, e tuttavia», ha scritto Geno Pampaloni, «onnipotente nell’ordine umano, poiché è l’unica arma con cui l’uomo, il poeta, può fronteggiare la verità della vita, impenetrabile, splendida e ostile».

In versi 

Tali riflessioni affollano anche l’opera poetica di Landolfi, condensata nelle due raccolte Tradimento (1972) e Viola di morte (1977), dove emerge l’oscillazione di un pensiero perennemente in bilico tra una concezione miracolosa della parola («ed essa allevia le mie pene») e la speranza che continuamente viene frustrata («E non ho più valore / D’arrampicarmi su per le parole»).

In Viola di morte, raccolta di versi dedicata non a caso a D’Annunzio, ricercatore del verso stilisticamente perfetto, Landolfi tratteggia il nuovo mondo, quello che ha subito la catastrofe di una realtà priva del verso e della parola, dove quindi non esiste più significato se non sotto la forma di menzogna e illusione.

Testimonia questa resa una straordinaria poesia incentrata sulla fine della fede nei confronti della parola e su un invito al silenzio che richiama il misticismo: «Scindere dalle corde del destino la nostra vera dignità celeste / E ritrovare il tuono che declina / La nostra umanità terrestre, / Scaricare la soma che ci ingombra / E il terrore dell’ombra, / Nulla significare, nulla dire: / Tale forse il supremo atto d’amore». Con Tradimento il tentativo di salvataggio del linguaggio poetico diviene vano, nasce la consapevolezza della sconfitta e dello spegnimento progressivo della forza della scrittura («così trapassa in prosa / Il verso, l’illusione generosa / In disperata ostinazione») e si insedia un «peso silenzio / Che non racchiude nulla».

Come Landolfi ha scritto in uno dei suoi diari «non tutto può, anzi, non tutto deve essere spiegato», un monito utile per avvicinarsi al cuore più puro dell’opera landolfiana, sostanza straordinaria e inesauribile.

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