Era il 22 novembre 1995 quando il film di animazione Pixar ha rivoluzionato il cinema. Era un family movie, con una storia più complessa delle favole a cui erano abituati i più piccoli ed è subito diventato un cult. È stato e rimarrà il grande romanzo di formazione della Gen Z
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Era il 22 novembre 1995 quando il mondo scopriva che volare non era altro che cadere con stile. Trent’anni fa usciva nei cinema di tutto il mondo Toy Story, il primo film d’animazione della storia interamente realizzato in Cgi (computer-generated imagery), in computer grafica: una rivoluzione cinematografica dalla portata stratosferica che sarebbe valsa al regista John Lasseter un Oscar per i contributi speciali nell’edizione degli Academy Awards del 1996.
La rivoluzione di cui ancora oggi possiamo percepire e vedere le tracce, però, è quella culturale, o meglio generazionale. Per tutti i bambini e le bambine nate alla fine del secolo scorso, Toy Story – il cui capitolo numero cinque arriverà al cinema nel 2026 – ha rappresentato il substrato culturale animato che ha influenzato tutta una serie di prodotti di intrattenimento che hanno poi caratterizzato l’adolescenza e l’età adulta.
Da Alla Ricerca di Nemo (2003), a Shrek passando per Monsters & Co. (2001), i film della prima infanzia e le serie tv dell’adolescenza (da Scrubs a The Big Bang Theory) sono stati infarciti di riferimenti, citazioni o omaggi alla prima avventura di Woody e Buzz.
Toy Story è stato molto di più di un film per bambini: è stato un family movie, un film per famiglie, una categorizzazione che non ne sminuisce il valore, ma, anzi, fa capire la portata rivoluzionaria di quel film d’animazione, in grado di unire nella stessa proiezione o sullo stesso divano adulti e bambini.
Nel primo dei quattro (presto cinque) film prodotti da Pixar Animation Studios, il regista John Lasseter – che con Pete Docter, Andrew Stanton, Joe Ranft crea il soggetto – e gli sceneggiatori umanizzano i giocattoli creando un’empatia mai pensata prima tra spettatori (adulti e bambini) e i personaggi non umani sul grande schermo.
Personaggi che, però, sono tridimensionali e pieni di dubbi, a differenza dei film Disney creati fino al 1995 (con l’unica eccezione, forse, rappresentata da Il Re Leone (1994), con il protagonista che si ritrova a fronteggiare una crisi esistenziale in seguito a un lutto famigliare).
La Generazione Z, dunque, cresce con un modello di film per bambini dove vengono affrontati i sentimenti a cui loro stessi, anni dopo, dovranno dare un nome e dove anche il personaggio principale, “l’eroe”, è un essere umano, pardon giocattolo, fallibile.
Complessità semplice
Il film si apre con la preoccupazione, la gelosia del cowboy Woody verso l’astronauta Buzz Lightyear, che minaccia di rimpiazzarlo nel cuore di Andy, il bambino di cui fino ad allora è stato il giocattolo preferito. Woody vuole allontanare Buzz, facendolo cadere dalla finestra, perché un’azione molto più immediata, infantile e primordiale rispetto al tentativo di capirlo e includerlo.
Woody dubita, non si sente abbastanza, si smarrisce perché senza essere il giocattolo preferito di Andy non sa qual è il suo posto nel mondo. E lo stesso prova Buzz che scopre di non essere uno space ranger ma un giocattolo vedendo la pubblicità di sé stesso in tv. Certo, non è un thriller psicologico, quindi i due giocattoli inizialmente rivali si uniscono nel momento di maggiore difficoltà portando il film al tanto agognato finale positivo.
La crisi d’identità, il confronto inevitabile con chi ci sta intorno, la ricerca di approvazione sono sentimenti che vengono messi sullo schermo per essere compresi, nell’immediato, solo dagli spettatori adulti, ma per arrivare comunque a quei piccoli spettatori che, negli anni successivi, si sentiranno sia Woody che Buzz.
La rivoluzione generazionale e sentimentale di Toy Story risiede tutta nel non trattare, per la prima volta, un film d’animazione per bambini come un prodotto semplicistico a livello di sceneggiatura, ma come una pellicola che possa parlare loro sia nel 1995 sia nel 2025: non è un caso, infatti, che il film abbia vinto l’Oscar per la Miglior sceneggiatura originale nel 1996.
Un romanzo di formazione
L’ironia dissacrante, la sagacia e l’irriverenza di tutti i giocattoli protagonisti del film hanno colpito il pubblico adulto che in quell’anno è accorso in massa a vedere il film: mai un prodotto destinato anche ai bambini aveva osato così tanto in termini di dialoghi e di punch line, forse è anche per questo che non ha mai smesso di accompagnare i ragazzi e le ragazze che oggi hanno 20, 25 o 30 anni.
Perché non è mai stato infantile nel senso negativo del termine e non è mai stato lontano, come lo erano i mondi incantati ma irrealistici delle favole Disney. Non è mai stato relegato a un prodotto dell’infanzia, perché non è stato concepito per esserlo. Come ha raccontato Pete Docter, Direttore Creativo di Pixar e tra gli ideatori del soggetto, in una recente intervista: “La cosa per cui la gente va al cinema è vedere le persone cambiare” e per la prima volta anche i bambini sono cresciuti consapevoli di una concetto un po’ nebuloso ma tangibile chiamato cambiamento.
Per la Gen Z, Toy Story ha avuto un ruolo simile a quello che, secoli fa, ebbe il romanzo di formazione, ossia raccontare un percorso costellato di ostacoli attraverso cui impariamo a capire chi siamo e chi sono le persone che ci accompagnano verso l’età adulta. Probabilmente tutto questo oggi è didascalico, ma la potenza detonante è portarlo sullo schermo in un film per bambini a fine anni Novanta.
Dopo il successo di Toy Story, che è diventato il secondo film con il maggior incasso a livello internazionale nel 1995 con 373 milioni di dollari, è nata una galassia di film che hanno animato l’infanzia di quella che potremmo chiamare anche Generazione Pixar: non solo il sequel di Toy Story, ma A Bug’s Life, che uscì nel 1998, Monster’s & Co e poi Shrek e Gli Incredibili hanno segnato ogni anno dell’infanzia di tutti coloro che sono nati a fine millennio, che crescevano con l’immaginario colorato della Pixar.
Un universo che ci ha mai lasciato come dimostra anche Lucio Corsi, che durante la scorsa edizione del Festival di Sanremo ha suonato al pianoforte con la scritta “Andy” sotto lo stivale texano, dimostrando che non ci sarà mai un’età in cui noi ragazzi degli anni Novanta diremo addio a Woody e co.
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