Diventare una docente di sostegno, per me, non è mai stato un ripiego. Ho scelto di esserlo rinunciando a una cattedra di ruolo sulla “mia” materia. Quello che non sopportavo più era di rimanere inerte nel vedere una scuola che, ancor’oggi, «cura i sani e respinge i malati».

Quando racconto la mia storia, lo faccio sempre convinta, fiera. Le reazioni sono le più disparate. “Ma come hai rifiutato una cattedra per insegnare spagnolo alle superiori, sei pazza?!” Oppure: “Hai fatto bene, meno lavoro: così non hai lo stress di correggere tutti quei compiti!”

C’è poi chi si limita a un semplice «ah…». Ognuna di queste risposte trasuda una mancanza di riconoscimento e dignità per un lavoro che spesso viene accostato più a quello di una babysitter che di docente.

Quando ho ricevuto il Premio Atlante Italian Teacher Award lo scorso 10 maggio come miglior insegnante italiana per la scuola secondaria di primo grado ero l’unica docente di sostegno tra i finalisti. Contentissima e orgogliosissima di rappresentare una categoria così scarsamente considerata.

Un esempio? Recentemente un importante membro del governo ha dichiarato che noi docenti di sostegno dovremmo essere psicologi, dimenticando che per entrare di ruolo serve un tirocinio formativo attivo (Tfa), che prevede competenze, non solo di tipo psicologico, ma anche pedagogico, sociologico, giuridico e didattico.

La formazione del docente di sostegno è completa e rispecchia più di tutte il principio del lifelong learning. Eppure, questa mancanza di riconoscimento si avverte dal primo momento in cui si mette piede in classe.

Inizia con l’alta probabilità che il tuo collega ti presenti agli studenti per nome e non come “professor Tizio” o ancora come “l’insegnante di Caio”. In sostanza, un de-classamento di fronte alla classe.

Se poi ti è stato affidato un alunno con una disabilità complessa, bisogna essere pronti a momenti di estrema solitudine. Tutto ciò che gira intorno all’alunno che stai seguendo resterà solo un problema tuo.

Le risorse

Come sopravvivere, allora? Sicuramente tessendo una rete di relazioni. Saranno proprio i compagni dell’alunno i primi ad approcciarsi e a darti una mano.

L’altra risorsa sono gli stessi colleghi di sostegno che, molto probabilmente, affronteranno o hanno già affrontato gli stessi problemi.  E poi ci sono ovviamente gli altri docenti curriculari, la famiglia e altre figure come terapisti, operatori ed enti. Con tutti sarà tuttavia necessario definire sin da subito i ruoli.

La sfida è quella di diventare il garante della partecipazione dell’alunno con disabilità alle attività della classe. Le barriere sono tantissime, alcune insormontabili. Quelle fisiche, innanzitutto, dovute a strutture scolastiche non adatte. Ma anche quelle metodologiche come l’onnipresenza della lezione frontale.

Altre barriere sono quelli di attitudine per cui non si è considerati docenti della classe, ma di un solo alunno o quelle di comunicazione come l’uso di solo canali classici quali la voce.

Noi docenti di sostegno siamo alla continua ricerca di facilitatori e quando non si vedono all’orizzonte, sfoderiamo tutte le armi che abbiamo: creatività, curiosità, inventiva. 

Per lavorare al meglio delle mie potenzialità mi sono ritagliata un mio spazio, non una materia specifica da insegnare. Ho iniziato a farlo prima nelle ore di supplenza, nei cambi d’ora, per sensibilizzare su certe dinamiche come diritto alla comunicazione, autismo, inclusione. Poi ho creato quelle che chiamo lezione a “pillola”: somministro una nozione, una notizia, anche una semplice curiosità. 

La Legge 92/2019 ha inserito educazione civica come insegnamento trasversale prevedendo almeno 33 ore di lezione per ciascun anno di corso. Vedendo colleghi “appesantiti” da queste ore, mi capita spesso di propormi per attività di Educazione civica. 

Non si smette mai di cercare soluzioni per cambiare radicalmente la nostra scuola. Una delle ultime proposte è quella della cattedra mista, che mi vede  scettica. Se ci si limitasse a un semplice scambio di ruolo si starebbe sottolineando che chiunque, senza un’adeguata preparazione, possa fare l’insegnate di sostegno.

Sembra invece necessario investire nella formazione di qualità, ad esempio creando percorsi universitari più specifici per il sostegno. Un anno di Tfa non è sufficiente, soprattutto in un momento in cui i docenti sono insufficienti a coprire i numeri di studenti con disabilità.

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