Il romanzo Due vite di Emanuele Trevi, semplicemente, è scritto molto bene; la stessa semplicità che si ritrova nella capacità di raccontare in poche, efficaci pagine la vita intera dei suoi due amici morti, Pia Pera e Rocco Carbone. Senza scorciatoie, esibizioni né pudori.

La forza del romanzo è nel punto di vista, in bilico tra l’io e un impossibile “noi”.

Ma anche nella capacità di stabilire la “giusta distanza”, mettendo queste due vite – o meglio tre, se com’è giusto contiamo anche quella di Trevi stesso – in cammino sulla strada di confine scivolosa e nascosta agli occhi che separa persone e personaggi.

In maniera seducente e non replicabile, si ha l’impressione di trovarsi davanti a un’opera inconscia e al tempo stesso dolorosamente consapevole, dalla quale misteriosamente sorgono vite autonome dal racconto stesso che ne viene fatto.

Su questi temi, già espliciti nel romanzo stesso, che è anche una riflessione sullo scrivere, verte il breve epistolario intercorso tra chi scrive e l’autore romano, in mail successive, nell’arco di una settimana e che qui riportiamo.

Nelle prime pagine di Due vite parli dell’Origine del mondo di Courbet sostenendo che la sua potenza sia nella totale assenza di retorica ma al tempo stesso riconoscendo che quell’assenza si ottiene solo attraverso l’artificio. Uno dei meriti del tuo romanzo penso stia nella capacità di non serbare nulla e al tempo stesso di non esibire mai. Sembra una precoce confessione dell’obiettivo che ti poni nella scrittura.
Tutto il pensiero dei romantici, che è il pensiero fondativo della letteratura come la intendiamo oggi, ruota intorno all’artificio e al suo rapporto con la «celeste naturalezza» che Giacomo Leopardi attribuiva agli antichi. In Germania Heinrich von Kleist, che ha molto in comune con Leopardi, usò la metafora del teatro delle marionette per delineare questa dinamica paradossale: l’assenza di retorica come supremo artificio retorico! Che ce ne rendiamo conto o meno, noi proseguiamo nel solco di questi padri fondatori. Per me la stella polare è sempre stata l’imitazione della lingua orale, perché una scrittura che non imiti in qualche modo la voce e le sue cadenze mi dà fastidio fin dalle prime righe. Quando si scrive “un bicchiere colmo” e si pensa “un bicchiere pieno”: da questo scollamento nasce la bruttezza in letteratura, io ritengo. Ma un libro non è un podcast! Magari! Dunque se io penso che voglio scrivere un romanzo esattamente come racconterei la storia al telefono a un amico, poi devo costruire quell’effetto, non lasciare nulla al caso, lavorare sulla cadenza della frase, sulla punteggiatura, su scelte lessicali che siano effettivamente pronunciabili in uno spazio mentale come quello della lettura. Il capolavoro di Gustave Courbet (e in generale tutta la pittura di questo genio) è un esempio di queste problematiche nel campo dell’arte. Io adoro la pornografia e detesto l’erotismo, ma l’innocenza pornografica è finta, è un effetto retorico, è l’anatomia umana riscattata dalla morte attraverso un processo artistico. Non a caso Courbet è molto affine a Gustave Flaubert, che in queste complicate faccende rimane sempre il maestro supremo.

Ti prendi gioco dell’espressione “immortalare” quando usata per descrivere l’atto del fotografare, scegliendo l’accezione “altra”: quella del “rendere eterno” anziché la più ovvia del “fermare l’istante” di un flusso.

Come se reclamassi un sospiro d’eternità nel momento stesso nel quale ti misuri con l’indicibile, ciò che non può esserci, se non appunto, ingannandoci con la lingua o attraverso il racconto di una foto. Alla fine sembra sia tu a voler credere che si possa “immortalare” nel senso di “rendere eterno”…
Si tratta dell’illusione effimera che producono tutti i supporti della memoria: che le cose siano ancora lì. E in effetti, da qualche parte sono. Vedo il passato come un luogo dove non possiamo più entrare, ma dove le cose, nonostante noi, continuano a esistere indefinitamente, e noi, quello che siamo stati, insieme a loro. Le foto di Rocco e di Pia che ho ritrovato casualmente e che sono state la scintilla del mio racconto mi fanno pensare al finale della favola di Winnie the Pooh: da qualche parte del bosco, il bambino e il suo orsacchiotto continuano a giocare per sempre. Possiamo anche dire che il tempo è una malvagia illusione, una specie di Matrix, ma è più forte di ognuno di noi.

Proprio l’impossibilità di dire la morte mi pare una delle Gaddiane “concause del tuo scrivere”. Nel romanzo ti riferisci al “metodo Ingravallo”, l’eroe del Pasticciaccio. Individui il senso nella sconfitta, nella condanna alla libertà che è lo scrivere?
Sì, è proprio questo, una condanna alla libertà! Il fatto è che io odio la morte e il suo mandante, il tempo che passa. Come una diva hollywoodiana in declino, odio invecchiare, odio tutte quelle saggezze che tentano di rendere accettabile la caducità. L’unica resistenza che ha una sua efficacia è il principio del piacere, che realizza le condizioni di quella che Oscar Wilde definiva «perfezione momentanea».

Se fossero ancora vivi, i tuoi due amici, saresti riuscito a scrivere delle loro vite?
Questa è una questione molto dibattuta quando si ragiona su questi ritratti di persone reali. E si finisce sempre per citare quel pensiero di Pasolini che dice: la morte è per la vita quello che il montaggio è per un film. Questo è certamente vero, ma per esempio ti vorrei citare Limonov di Emmanuel Carrère, che ha un finale stupendo e narrativamente non ha affatto bisogno della morte del suo autore. Nella mia esperienza, mi sono trovato a scrivere un piccolo libro su un grande artista vivo e vegeto, Luigi Ontani, che insieme alla fotografa Giovanna Silva ho seguito per qualche tempo a Bali, sua seconda patria. Non ho assolutamente sentito una grande differenza rispetto alla mia posizione narrativa abituale, che è quella del sopravvissuto, per così dire. Allora, direi che l’importante non è la morte, ma l’individuazione di un punto di vista credibile. Quello di Carrère, per esempio, è di una persona incuriosita da Limonov, che ha deciso di dedicargli molto tempo ed energia, e che a un certo punto, con tutta la simpatia umana possibile, se ne è un po’... stancato. Da lì viene quel meraviglioso impasto di comprensione e ironia che caratterizza il libro nel suo complesso. Allora, direi che in queste cose non ci sono regole fisse, ma se si vuole ottenere un buon risultato non si può procedere a caso, bisogna avere un criterio artistico. Vorrei segnalarti anche un libro stupendo che mi ha molto influenzato e che in Italia nessuno conosce: Ingrid Caven di Jean-Jacques Schuhl, premio Gouncourt nel 2000. L’autore parla di sua moglie, Ingrid Caven, la grande cantante, ex compagna di Rainer Werner Fassbinder, tenendola di fronte a sé come un pittore del Settecento avrebbe fatto con una sua modella.

Parlando de L’apparizione di Rocco Carbone, uno dei due scrittori protagonisti del tuo romanzo, dici chiaramente che è un libro-autoterapia. Una lunga, dolorosissima analisi di una crisi psichiatrica. Eppure non viene la tentazione, leggendo quelle righe, di pensare che anche il tuo romanzo possa essere letto nello stesso modo. Il tuo romanzo non è in alcun modo un tentativo di elaborazione del lutto. O sbaglio?
Il libro di Rocco è quello che si potrebbe definire una patografia, una descrizione di lancinante esattezza di una crisi maniacale. E certamente è un’autoterapia. Perché scrivendo lui si era messo in grado di vedere quello che gli era successo. Il tutto mascherato leggermente da romanzo, nelle prime e nelle ultime pagine, che sono quelle che mi convincono di meno. La differenza sostanziale tra me e Rocco è che io ho sempre avuto una capacità di adattamento alla vita incomparabilmente maggiore di lui. Questa è una situazione che si ripete in molte delle cose che scrivo, perché a me piacciono i pazzi, le persone che vanno fino in fondo nel loro buco, che è un po’ un pozzo dei desideri e un po’ una fossa biologica. Ma io non sono come i miei personaggi, mi proteggo di più, cerco di far durare il più a lungo possibile la mia miccia. Quindi io non ho nulla da cui devo guarire attraverso i miei libri, nulla di grave e dunque narrativamente rilevante. Certo, ho provato in certi periodi forti depressioni, ma la mia stella polare è un’istintiva razionalità, se mi passi l’ossimoro. Ed è questa a governare la maniera in cui scrivo.

L’assenza avrebbe potuto essere un titolo alternativo del romanzo; l’assenza dei protagonisti a loro stessi e agli altri due dell’improbabile trio; la tua incapacità, della quale ti rammarichi, di aver tenuto fede al “patto d’amicizia” con Carbone; l’assenza come misura del dolore con la bella citazione dell’allieva di Rodin che così descriveva la sua malattia nervosa, quando parli di quella di Carbone, a sua volta bipolare. Penso sia il tratto più infantile e tenero del romanzo, questo perseverare nella battaglia incolore contro l’assenza.
L’assenza è un titolo da scrittrice francese! A parte gli scherzi, l’assenza che di per sé è identica a sé stessa e ineluttabile la vedo un po’ come una sfinge, concede poco spazio narrativo. Però genera qualcosa di più dinamico, una specie di figlia un po’ più stupida, che è la mancanza. Ecco, la mancanza è l’aspetto narrativo, diciamo pure romanzesco, dell’assenza. Io cerco sempre di andare dal filosofico al poetico. Cerco sempre, insomma, categorie più imprecise e più adeguate alla singolarità dell’individuo e alla sua radicale imperfezione. Perché la comprensione del mondo, per come la vedo, ha un valore estetico molto relativo. La letteratura è l’unico sapere umano in cui l’ottusità ha lo stesso valore della lucidità, l’errore di calcolo è prezioso almeno tanto quanto il calcolo esatto.

Ho ritrovato una benefica (almeno per me) assenza del sacro e del trascendente e un dolente, a volte buffo e infantile, attaccamento alla materia-natura. Il giardino di Pia, l’albero piantato in ricordo di Rocco, sul quale tuttavia pisci.
Per tutta la vita, praticamente fin da quando ho imparato la parola, mi sono definito «ateo», pur avendo profittato di una meravigliosa educazione cattolica, piena di buffe e amorevoli monache, preti intelligenti, crocifissi al loro posto in classe sopra la cattedra (credo che la gente che vuole togliere il crocifisso dalle classi sia fondamentalmente cattiva). Eppure, non posso superare in nessun modo il vecchio problema: come può Dio permettere il dolore e la sfiga? La famosa affermazione di Dostoevskij, che tra Cristo e la verità sceglie Cristo, se è davvero sua (queste frasi famose molto spesso sono apocrife) mi sembra un’idiozia. Perché sceglie Cristo? Il mio credo è molto semplice: noi viviamo immersi in un mondo di fenomeni, dai più grevi ai più ineffabili, e questo mondo è un campo di forze governato da una polarità: da una parte c’è la materia, al capo opposto lo spirito. Lo spirituale è un grado supremo di rarefazione del materiale, e il materiale un grado supremo di condensazione dello spirituale. Non esiste un abisso da scavalcare: tutto è, per così dire, contiguo.

Nel tuo romanzo si legge dei limiti del linguaggio da una parte, della sua atroce neutralità (per il linguaggio persona e personaggio pari sono) e d’altra parte viene descritta la potenza dell’atto dello scrivere: solo scrivendo puoi far vivere persona/personaggio. Il linguaggio si fa scrivendo, e la scrittura tappa i buchi della realtà.
Uno dei più grandi equivoci sulla scrittura è che ci sia qualcosa che la “precede”; un’idea, una trama, un ricordo. Ma questo non è vero anche a un livello basilare: scrivi la lista della spesa, e saprai quello che ti serve! La scrittura non è un archivio, ma un atto di conoscenza speculare alla lettura: non sappiamo mai a cosa andiamo incontro. Perché è un’operazione che conferisce forma alla coscienza. Il lavoro della coscienza, del pensiero, è totalmente privo di forma. Le storie che continuamente ci raccontiamo nella nostra testa, se una macchina potesse trascriverli direttamente, risulterebbero infinitamente lunghe e noiose. È un fatto descritto alla perfezione da Freud in un saggio del 1909, Il romanzo familiare del nevrotico. Visto che tutti siamo nevrotici, vuol dire che tutti intessiamo dei grandi romanzi nella nostra testa, in cui ci pigliamo delle belle rivincite sulla realtà e realizziamo i piaceri più proibiti. Ma tutta questa attività mentale non ha nessun significato. Dire «ho in mente un libro» equivale a dire «non ho in mente nulla».

Scrivendo, dici, si riesce a far rivivere i morti, “in modo autonomo”. L’unica “trascendenza” concepibile sembra essere individuata proprio nell’atto dello scrivere, e che tu consigli come terapia per chi ha perso una persona cara.
Sì, per i motivi detti prima, scrivere di una persona che non c’è più è ben diverso dal pensarla o dal sognarla: si ha la netta impressione di evocarla. In questi mesi ho scritto la prima parte di un libro su mio padre e l’esperienza è stata talmente intensa che mi sono preso una vacanza fino a luglio. Però ho iniziato un lungo racconto su mia nonna. Evocare è un vizio.

La trovata dell’equiparare il gergo degli “epigoni” degli strutturalisti a quello dei Comunicati delle Br è piuttosto efficace. Così come il dialogo tra te e Carbone sul tentativo di smontare il “giocattolo-letteratura”, renderlo scienza, per capire. «Ma che devi capire?» rispondi tu, conclusivo. Non c’è niente da capire direbbe il cantautore…
Rocco Carbone aveva una struggente necessità di chiarezza, di semplificazione radicale. Nell’ambiguità vedeva annidarsi pericoli per lui mortali. Dunque si dedicò a studi di semiologia letteraria, di «scienza della letteratura». Andavamo all’università negli stessi anni, e io detestavo quel linguaggio, oggi come allora vedo nella critica una forma d’arte, una manifestazione della soggettività. Ci prendevamo in giro a vicenda. Rocco ha scritto anche un saggio, quando era più grande, dedicato a quelle che riteneva le differenze tra critico e scrittore, che era una prosecuzione di quelle dispute giovanili. Con sorpresa, leggendo questo saggio pubblicato su una rivista importante, mi ero reso conto che era rimasto delle sue idee. In realtà era un saggio dedicato a me, alle notti passate a discutere di queste cose. Paragonava il critico a qualcuno che procede con «il pilota automatico», a differenza del volo manuale dello scrittore. Mi spiego così il fatto che non abbia mai amato Proust, cosa più unica che rara nella mia generazione: il saggismo di molte parti della Recherche lo sconcertava, gli opponeva sempre, in modo a mio parere arbitrario, Céline. In generale, direi che non amava l’ibridazione dei generi letterari, e questo lo rendeva estraneo alle scritture miste come la cosiddetta auto-fiction.

La scrittura scrive il mondo eppure chi scrive è socialmente inutile. O almeno tu così ti ritieni.
Mi attrae nell’arte tutto ciò che sta oltre i limiti dell’utile, come li chiama Georges Bataille. Oggi mi sembra tornato in auge, nel mondo occidentale, un ideale di «impegno» al quale mi sento totalmente estraneo. Ma perché io ho grande rispetto dell’utilità di altre forme di sapere, alle quali non mi ritengo affatto superiore. La medicina, per fare un esempio, o la giurisprudenza, sono socialmente utili. Mi stupisce per esempio che uno scrittore che ammiro, Amitav Gosh, possa accusare di «cecità» la narrativa contemporanea perché non si occupa abbastanza dei problemi climatici. Ma come se ne dovrebbe occupare un romanziere? Scopiazzando da Wikipedia o da Internazionale? A cosa erano utili Baudelaire, o Nabokov, o Sylvia Plath? La letteratura è la lingua della soggettività, che per sua natura non è utile a nessuno. Il fascismo è esattamente questo: una soggettività che si spaccia per utile. Un altro discorso è l’uso di strumenti letterari a fini propagandistici, che possono anche essere nobili, come i comizi in versi di Amanda Gorman, che non vanno giudicati con il metro della poesia (cosa che nessuno può fare seriamente), ma con quelli della retorica e della persuasione.

Che pensi dei premi letterari?
Io li vivo bene, per me è importante portare i miei libri nel grande circo della narrativa. All’alieno spiegherei che ci sono scrittori come me, che hanno il «fisico da premio» perché sanno vincere e sanno perdere, e altri che ne fanno come un simbolo della loro vita in quel momento, e che dovrebbero tenersene alla larga, perché in questo gioco vincere e perdere sono come il dritto e il rovescio nel tennis. Per farti un esempio al quale credo alluda la tua domanda, nella vita ho sconsigliato a moltissimi amici di partecipare al Premio Strega, per me invece va benissimo, lo trovo divertente, una versione incruenta del Trono di spade, che offre una straordinaria visibilità al tuo lavoro. Odiavo invece fare il giurato, l’«amico della domenica», perché mi dispiace dire di no, ma se dici a tutti di sì menti e rovini il gioco.

Hai contribuito alla nascita dell’indie “letterario” romano; penso al gruppo del supplemento culturale La Talpa del Manifesto e a ciò che ne è seguito. Come guardi a quel periodo? Che ne è stato? Avete fatto figli? Chi sono e come stanno?
Questa è stata una parte bellissima della mia gioventù. Un’avventura che daterei 1995-2005. A scuola ci insegnavano che l’editoria vera era al nord, e a un certo punto vennero fuori a Roma tantissime case editrici che facevano autori decisivi. Minimum fax prese l’opera completa di Carver, alla Fazi (che ho contribuito a varare nei primi anni) pubblicammo degli inediti stupendi di John Fante, e poi Castelvecchi che era il più pazzo e visionario di tutti, il grande Marcello Baraghini con i libri a mille lire di Stampa Alternativa, e/o che traduceva i capolavori dell’est come i libri Hrabal, «Stile Libero» che è la costola romana di Einaudi, molto diversa dalla casa madre... dimentico tantissime cose, ci vorrebbe un libro a raccontarle. Forse qualcuno lo scriverà e ne varrebbe la pena, perché è stato un lavoro collettivo che ha coinvolto persone stupende, come Severino Cesari che mi manca moltissimo. E certo, la «Talpa», certi centri sociali come il Forte prenestino, e il fatto stesso di essere lì a trent’anni, in mezzo alle cose, con l’illusione di non avere padroni... e senza quei maledetti social, dunque uscendo tutte le sere, cercando le persone una a una, guardandole in faccia... Poi è ovvio che si invecchia, e si lascia il posto ad altri. Non so bene cosa fanno le persone che hanno oggi venti e trent’anni, e questa è una grande differenza, perché noi frequentavamo molto i più vecchi e imparavamo molto da loro, qualcosa sembra essersi interrotto nella catena di trasmissione... ma insomma, da ogni generazione esce fuori qualcosa. Io ho qualche allievo, per chiamarlo così, qualcuno che seguo e consiglio, altri mi sembrano più diffidenti, ma mi sembra che ci sia un sacco di gente che si dà da fare.

Mi pare tu sia una specie di ibrido che si è trovato una sua collocazione nella privilegiata posizione dell’eterno outsider che tuttavia è ben inserito nella “literary society”. Rispondimi male, per favore.
E perché dovrei risponderti male? È sempre interessante capire come sei visto dagli altri. Se ti dicessi che odio il potere, ti darei di me un’immagine non falsa ma incompleta. La realtà è che... nessuno ha mai provato a corrompermi, nessuno mi ha mai cercato! E così, sono arrivato a 57 anni senza saper fare il nodo alla cravatta. A me piace lavorare, sono rapido e affidabile, consegno le cose che devo fare in tempo. Le mie ambizioni sono confinate nella letteratura, non c’è nessuna carica che accetterei non perché sono più puro degli altri, ma perché non me ne frega nulla di fare altro. Finché ce la farò, è giusto che mi venga data la fiducia di cui godo, poi troverò la maniera di rallentare, o di mollare, chi lo sa.

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