Poco prima che cominciassi a scrivere questo articolo, ma con in mente già formata l’intenzione di farlo, inizia a seguirmi su Instagram l’account di Simenon. Non so se prenderlo come un segno del destino o la prova che, come il suo Maigret, anche la versione virtuale di Simenon sa leggere la mente e il cuore degli uomini.

In realtà il sito e gli account di Simenon.com sono gestiti dal figlio Johnny che, insieme agli altri eredi, avrà un bel daffare a gestire (o meglio, godere) i proventi di uno degli autori più pubblicati e tradotti al mondo: terzo scrittore di lingua francese più tradotto al mondo, dopo Verne e Dumas, ovviamente il primo tra i belgi, all’inizio degli anni Novanta la tiratura complessiva delle sue opere arrivava a 700 milioni di copie. E da allora non può che essere aumentata, considerando che la fortuna di Simenon non ha conosciuto né mode né flessioni.

C’è da dire che la sua produzione è sconfinata: 193 romanzi, 158 racconti, diverse opere autobiografiche, numerosi reportage e chissà che altro, considerando che fino agli anni Trenta ha pubblicato a ritmo frenetico “letteratura alimentare”, come la chiamava lui stesso, romanzi popolari di vario genere, dal giallo all’avventura, dall’erotico al dramma a tinte forti, sotto una ventina di pseudonimi: Georges Sim, Christian Brulls, Jean du Perry, Jacques Dersonne, Georges Martin-Georges… Tante maschere, tanti nomi, quasi che uno solo, una sola identità, non sia sufficiente a catturare una vita così sproporzionata, straripante, affamata.

Ci sono romanzi-mondo, vasti e inafferrabili come interi universi: ma ci sono anche scrittori-mondo, autori che, come Simenon, travalicano la loro stessa produzione, la cui esistenza rompe gli argini di una sola vita: per entrare in questo labirinto può essere una guida utile Alfabeto Simenon, gustoso “abbecedario grafico” appena pubblicato da Alberto Schiavone con i disegni di Maurizio Lacavalla (Edizioni BD). Dalla A di alias alla Z di Zezétte, Schiavone e Lacavalla scompongono il mondo simenoniano in 23 brevi storie a fumetti che ne raccontano un aspetto, un personaggio, un’ossessione. O un’età: ad esempio l’infanzia. 

«Tutti i miei romanzi sono fantasmi della mia infanzia» ebbe a dire una volta Simenon: troppo facile leggere nella bulimia di Georges, nel suo desiderio senza fondo di vita, esperienze, sesso, storie, successo, la ricerca di riconoscimento, dell’unico riconoscimento che gli uomini cercano, quello dello sguardo materno. «Tutti mi ammirano. Tutti, tranne te», scriverà in Lettera a mia madre, dove prova a fare i conti con l’unico personaggio che gli ha sempre resistito, che ha fatto da modello per centinaia di figure femminili, spesso gretti, avari di sentimenti prima che di beni materiali, ma che, ammette Simenon, non ha mai davvero capito.

Copertina della rivista Radiocorriere TV, febbraio 1966 (Fotote Gilardi / AGF)

Di famiglia borghese decaduta, Henriette Brüll sposa a Liegi il contabile Désiré Simenon: alla morte prematura dell’uomo deve sostenere Georges e il fratello minore, Christian, il preferito. Con i problemi economici aumenta la sua ansia, la paura di essere inadeguata e che gli altri possano vederlo, il terrore della povertà: quando lei affitta una stanza a dei pensionanti, il futuro autore di Maigret lo vivrà come un’offesa alla memoria del padre.

Nel dopoguerra i rapporti con l’ormai famoso figlio erano già molto diradati, ma lei lo contatta: non «per ammirarlo» ma per chiedergli un aiuto per il fratello Christian, condannato a morte in Belgio per collaborazionismo con i nazisti. Georges riuscirà a farlo uscire dal paese e arruolarlo nella legione straniera. Ma come in Samarcanda, la morte l’attendeva solo poco più in là: nel 1947 Christian muore in combattimento nella guerra di Indocina nel 1947. La madre incolperà per sempre Georges di questa morte.

Le fortune di Simenon, dicevo, non sono mai diminuite: in Italia, se possibile, sono anche aumentate da quando la sua produzione, Maigret compreso, è trasmigrata dalle edicole delle stazioni con i Gialli Mondadori ai pastellati scaffali di Adelphi, facendo di quello italiano il mercato di maggior successo, anche rispetto alla Francia, per i romanzi di Simenon.

Ultimo di più di un centinaio ad approdare in libreria, però, non è un romanzo. Europa 33 è infatti una raccolta di reportage dal Belgio a Istanbul di un anno fatale come il 1933 (ma l’Europa ha vissuto anni non fatali, nel Novecento?), e soprattutto a Est, tra gli alleati della Francia, Romania, Polonia, Cecoslovacchia, per rispondere a una domanda. «Un giorno un poeta ha scritto qualcosa che suonava pressappoco così: “Ogni uomo ha due patrie: la propria e la Francia”. È ancora così, oggi? Ammesso che abbiamo degli amici, dove sono?» L’Europa è malata e, come un medico che l’ausculta, Simenon le fa ripetere Trentatre, trentatre…

Da questo viaggio Simenon ricava una serie di fulminanti istantanee che sono l’opposto dello sguardo banale e immobile della cartolina: un denso e accelerato corso di giornalismo, scritto decenni prima del “nuovo giornalismo”.

Quindici giorni

È curioso che nessuno ancora abbia scritto un libro, un manuale di auto-aiuto, una guida alla produttività personale sul «metodo Simenon»: una vita divisa in finestre di quindici giorni, quindici giorni durante i quali un romanzo veniva scritto dall’inizio alla fine.

Prendere un elenco telefonico del nord della Francia, segnarsi una trentina di nominativi su una busta gialla, ripeterseli a voce alta mentre si percorre avanti e indietro lo studio, dodici passi da parete a parete, ripeterseli finché non si individua una dozzina di nomi che hanno la rotondità del suono che deve possedere un personaggio, lasciare che la storia di ognuno di loro prenda forma, scrivere un capitolo al giorno, il quattordicesimo correggere i refusi, sistemare la punteggiatura, il quindicesimo riposo, si risponde alle lettere, si fa qualche intervista, si vedono gli amici.

Non c’è un giorno sedici, ma solo un nuovo giorno uno: si ricomincia. Dio ci ha messo una settimana a creare il mondo, Simenon ce ne mette due per scrivere un romanzo, d’accordo, ma lo rifà per centinaia di volte!

«C’è una bella storia che riguarda Simenon», ha detto una volta lo scrittore irlandese John Banville. «Un giorno, uscendo dal suo studio con in mano il dattiloscritto di un romanzo finito, lo scosse vigorosamente. Quando i suoi figli gli chiesero cosa stesse facendo lui rispose “mi sto sbarazzando degli aggettivi”. Come scrittore sono innamorato dell’aggettivo, ma il giallista deve seguire come meglio può l’esempio di Simenon e, quindi, deve usarli il meno possibile».

Questa scrittura in cui gli aggettivi “letterari” sono spazzolati via, molto diretta, semplice ma non flebile, robusta di passioni e tormenti, è il segreto del successo di Simenon ma anche la causa del pregiudizio che per lungo tempo lo tenne fuori dalla scena letteraria, poco considerato da scrittori e critici. Quando non proprio snobbato. L’unico amico che ebbe dentro la cittadella della letteratura è stato André Gide («Considero Simenon un grande romanziere, forse il più grande e il più autentico che la letteratura francese abbia oggi»), che lo accolse in Gallimard, con grande scandalo parigino, ovviamente: ma come, un giallista nella maison di Proust?

Senza contare la prolificità e apparente disinvoltura con cui scriveva: all’inizio degli anni Trenta l’editore di Paris Matin gli propone di sfornare un intero romanzo in una settimana chiuso dentro una gabbia di vetro sospesa davanti al Moulin Rouge. Alla fine quest’esibizione, questo reality prima dei reality, non si fece, ma l’ipotesi fu sufficiente a far cadere su Simenon il disprezzo dei colleghi: arrivista, mestierante, pronto a prestarsi a qualsiasi buffonata.

Ma anche questo era Simenon, l’istrione, l’attento amministratore del proprio “brand”, l’amante di diecimila donne (così diceva lui), ma anche il figlio poco amato di una madre insicura e distante, quello che vuole essere riconosciuto, che non ha paura a essere molto conosciuto, molto guardato, molto amato.

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