La partecipazione del presidente statunitense Donald Trump ai funerali di papa Francesco, prevedibile e al tempo stesso ingombrante, ha imposto nei media il tema dell’influenza della politica sul conclave.

Ricorrente nella storia quasi bimillenaria delle elezioni papali, questo peso sulla scelta del pontefice oggi è in realtà nullo. Anche se i cardinali hanno ben presente la portata politica della loro scelta, peraltro molto difficile da valutare nel corso della sede vacante che prepara il conclave vero e proprio.

Così è bastata la sola presenza di Trump a Roma per scatenare la fantasia giornalistica a proposito di sue possibili ingerenze sui cardinali, o meglio sugli scenari politici dell’elezione del papa. Le ipotesi sono state rafforzate dalle foto straordinarie sullo sfondo unico di San Pietro – un «bellissimo ufficio» avrebbe esclamato The Donald (che poi nei giorni successivi ha espresso il “desiderio” di diventare papa e ieri ha diffuso sui canali social della Casa Bianca, tra le polemiche, una sua foto vestito da pontefice ndr) – tra la Porta della morte dedicata da Giacomo Manzù al concilio Vaticano II e il battistero realizzato in età barocca da Carlo Fontana, con una conca di porfido proveniente dal mausoleo di Adriano e utilizzata nel medioevo come tomba dell’imperatore germanico Ottone II (tanto per restare in argomento).

All’immagine dei presidenti statunitense e ucraino seduti su due piccole sedie rosse si è aggiunta quella del successivo brevissimo conciliabolo al quale si sono uniti il presidente francese e il primo ministro britannico, tutti e quattro in piedi come i tetrarchi di San Marco a Venezia.

Questa rappresentazione delle tre potenze nucleari occidentali a sostegno dell’Ucraina – che nel 1994 ha rinunciato all’arsenale atomico sovietico in cambio del rispetto dei confini, poi calpestato da Vladimir Putin – si è imposta su quelle dei funerali del pontefice, suggestivi ma senza novità nonostante la retorica.

Francia, Spagna e Germania

In passato erano soprattutto le potenze cattoliche a condizionare l’elezione papale: l’impero germanico, la monarchia francese e quella spagnola. Circostanza che, dopo il consolidamento rinascimentale dello stato papale, spiega il susseguirsi di pontefici solo italiani – e spesso originari dei domini pontifici – per oltre quattro secoli, dal 1523 al 1978, nel tentativo di sottrarre il papato a eccessivi condizionamenti. «La stabile maggioranza italiana nel collegio dei cardinali era una condizione indispensabile della libertà d’azione del papa» ha osservato lo storico anglicano Owen Chadwick.

Oggi l’impero americano non è in grado d’influire sulla scelta del pontefice, nonostante diffusi luoghi comuni e analisi contrarie. Certo, il vicepresidente J. D. Vance – entrato di recente nella chiesa cattolica – è stato l’ultimo uomo politico a incontrare, sia pure per pochi momenti, papa Francesco. Indubbie e commentatissime erano state le tensioni e le frizioni tra le amministrazioni statunitensi e l’argentino Bergoglio.

Lo scontro, soprattutto con i conservatori statunitensi, si è consumato sulla questione dei migranti, ma anche sui temi bioetici, dall’aborto all’identità sessuale, a proposito dei quali il pontefice aveva posizioni aspramente opposte alle tendenze liberali. «Per me è un onore che mi attacchino gli americani» aveva commentato – senza riuscire a frenarsi – papa Francesco nel 2019 mentre era in volo verso il Mozambico. E alla diffidenza tipica di molti latinoamericani verso la potenza del nord andava ascritto il suo atteggiamento ambiguo sulla guerra di aggressione russa contro l’Ucraina.

L’attività statunitense

Intensa è stata l’attività statunitense in vista del conclave, ma più all’interno di una chiesa cattolica fortemente polarizzata tra liberali e conservatori, maggioritari nell’episcopato e nel clero, che da parte politica. Anche perché gli unici nomi di cardinali americani che potrebbero raccogliere consensi in conclave – certo non alla Casa Bianca – sono quelli dell’autorevolissimo Seán Patrick O’Malley, arcivescovo emerito di Boston e ultraottantenne, inattaccabile sul fronte degli abusi, e di una figura poco conosciuta e interessante come quella dell’agostiniano Robert Francis Prevost, già vescovo in Perù, da due anni curiale riservato e di rilievo.

Cardinali a pranzo

Ben sedici sono stati i pontefici francesi tra il 999 e il 1378, dallo straordinario Gerberto d’Aurillac (Silvestro II) all’ultimo dei sette papi di Avignone succedutisi uno dopo l’altro per una settantina di anni. Se considerevole è stata in seguito l’influenza della corona di Francia, e se soprattutto resta importante per la chiesa di Roma il vivace e originale contributo di pensiero del cattolicesimo francese, del tutto trascurabile appare al contrario l’influenza politica dell’antica «figlia primogenita della chiesa»

Ha fatto notizia l’invito del presidente Macron a quattro dei cinque cardinali elettori del suo paese per una colazione a Villa Bonaparte, sede dell’ambasciata di Francia presso la Santa sede. L’episodio – ha scritto sul País il corrispondente nella capitale francese Daniel Verdú – è risuonato «stravagante e scomodo» nel paese della laicità che Bergoglio detestava.

Anche perché tra i prelati incontrati dal capo di stato francese c’era Jean-Marc Aveline, l’arcivescovo di Marsiglia visto come un candidato plausibile. E l’attivismo conviviale del presidente si era incrociato la sera prima in una cena romana – a proposito della quale molto si è parlato (e crudelmente ironizzato) – con quello conclavistico di Andrea Riccardi, fondatore della comunità di Sant’Egidio, a cui appartiene da mezzo secolo Matteo Maria Zuppi, uno dei pochissimi italiani che i media classificano tra i papabili.

«Regno senza papi»

Sconsolato è invece, su La Vanguardia, il titolo dell’articolo di una firma illustre come quella di Enric Juliana. L’influente opinionista ha raccontato la Spagna «antico regno senza papi» nonostante il carattere di nazione cattolica da cui sono usciti – ha ricordato – i domenicani, i gesuiti e l’Opus Dei. Due soli sono infatti i pontefici spagnoli sicuri: Callisto III e Alessandro VI, i Borgia protagonisti di una leggenda troppo nera per essere vera, come ha dimostrato l’autorevole storico gesuita Miguel Batllori.

Damaso I era infatti romano e Benedetto XIII un antipapa, nonostante la convinzione di un altro storico ecclesiastico spagnolo, Manuel Milián Boix, che giurava sulla legittimità dell’aragonese Pedro de Luna, l’arcigno «papa Luna» alla fine asserragliato nel castello di Peñíscola affacciato sul Mediterraneo. A entrare in conclave saranno cinque elettori spagnoli, ma il re resta riservatissimo e il primo ministro Pedro Sánchez nemmeno ha ritenuto di partecipare ai funerali del papa.

Ius exclusivae

Oggi dunque i condizionamenti politici sul conclave sono nulli. Al contrario del passato. In età moderna, tra il 1590 e il 1831, in più di un’occasione venne addirittura esercitato il cosiddetto ius exclusivae per bloccare un candidato, prerogativa dei sovrani cattolici che erano rappresentati dai cardinali detti «di corona» o «nazionali». Con uno strascico nel conclave del 1903 quando venne affondata la candidatura del filofrancese Mariano Rampolla del Tindaro: dal veto austriaco, ma certo non solo a causa di questa aperta ingerenza, che comunque suscitò enorme clamore.

Evidente è invece la dimensione politica delle elezioni papali, anche di quelle più recenti. Suggestiva era apparsa nel 2013 l’elezione di un vescovo di Roma preso «quasi alla fine del mondo»: per la speranza che un papa venuto dal sud del mondo come Bergoglio, per di più con radici europee, potesse aiutare a superare le barriere tra i due emisferi. In dodici anni di pontificato però Francesco non c’è riuscito.

Le ricadute politiche

La suggestione in realtà era nata dal confronto con l’elezione nel 1978 di Wojtyła, «chiamato di (sic) un paese lontano», e che invece al crollo del muro tra est e ovest aveva senza dubbio contribuito, come drammaticamente confermò l’attentato che nel 1981 quasi lo uccise. Anche se il papa era cosciente – dichiarò poi lui stesso nel 1993 – «che sarebbe ridicolo ritenere che sia stato il papa ad abbattere con le proprie mani il comunismo».

Tra le ricadute politiche delle elezioni degli ultimi tre pontefici va infine iscritta anche quella di Ratzinger. La successione nel 2005 di un papa tedesco dopo un polacco è apparsa infatti come il superamento definitivo della Seconda guerra mondiale e dell’immagine demonizzante della Germania. Esattamente quarant’anni dopo la lettera che nel 1965 – mentre stava per concludersi il concilio – i vescovi polacchi avevano scritto a quelli tedeschi con parole che sconvolsero molti: «Perdoniamo e chiediamo perdono».

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