Quando il romanzo comincia il protagonista che racconta in prima persona è ancora un ragazzino incline alle fantasticherie e impaurito da un supplente manesco; sa di aver commesso una stupidaggine e che il supplente lo punirà con una serie di dolorosi nocchini. Si sta rassegnando ad andare a scuola con l’aria di un condannato a morte, quando il padre lo salva ingannando la madre (convinta sostenitrice del lavoro e del sacrificio) e portandolo invece al mare, in una spiaggetta nascosta e paradisiaca.

Il padre è un colosso barbuto, biondissimo, amante del buon cibo e delle buone bevute, «orso bianco in T-shirt e boxer scozzesi». Così lo vede il figlio la mattina dopo: ma in mezzo c’è stata una notte decisiva nella quale il padre, sfidando le regole fissate dalla rigida moglie per non fare del figlio un rammollito, si è introdotto nella camera del piccolo per dare e richiedere una razione di coccole, che il piccolo per altro rifiuta dichiarandosi stanco. Impossibile non vedere in questa scena il ribaltamento puntuale della scena forse più famosa della Recherche di Proust, quella del “bacio negato”, con l’inversione dei ruoli tra madre e padre.

Altra evidente inversione è l’episodio in cui il padre (non ebreo, «cananeo») rimedia una brutta figura penosamente snobistica in un contesto di ricchi ebrei (ricordo delle snobistiche gaffes dell’ebreo Bloch nei salotti goyim). Parallelo alla proustiana matinée dai Guermantes è invece l’accenno finale, quando la bellissima cugina amata in gioventù riappare dopo quarant’anni “truccata da vecchia”. Molti altri passi si potrebbero citare, ma sarebbe sbagliato ritenerli semplici “omaggi”: sono una dichiarazione di poetica, anzi una scelta di campo – sono l’idea di una letteratura come disciplina capace di giustificare una vita intera.

Viceversa

Di chi è la colpa (Mondadori), l’ultimo romanzo di Alessandro Piperno, è un libro in cui come nei classici, da Dante a Thomas Mann, una vena lirica e intimista, rigurgitante di fantasmi, diventa il veicolo per un ritratto sociale pungente e vivacissimo – ma anche viceversa. Vale la pena di analizzare i due diversi strati. Partiamo da quello descrittivo della società: una famiglia nucleare ristretta e isolata, mediocremente piccolo-borghese (lui rappresentante di elettrodomestici, lei insegnante di matematica), sempre in lite per i debiti che la moglie rinfaccia al marito inaffidabile e ai suoi velleitari progetti, entra in fibrillazione e precipita nella tragedia quando la madre, che mai ha detto al figlio ormai adolescente di essere ebrea, vuole riconciliarsi con la facoltosa famiglia d’origine e spinge figlio e marito a un seder di Pesah (la cena della Pasqua ebraica), dove una famigliona allargata di ebrei romani dà il meglio e il peggio di sé.

Fascino e repulsione; l’allegra e animale gioia di vivere del padre è umiliata dall’edonismo raffinato e forzato (forzato perché pare l’oscuro risarcimento di un eterno avere un conto in sospeso con la morte) di quella ricca casa altoborghese. È gente che, come il ragazzino protagonista avrà modo di verificare in seguito, «non ringrazia mai camerieri, facchini, tassisti, ma è inopinatamente sollecita con gli homeless, soprattutto se neri, sbronzi e psichiatrici». C’è un sonetto autobiografico di Umberto Saba in cui il conflitto tra un padre gòi leggero e una madre ebrea che sente tutti i pesi della vita è definito come quello tra «due razze in antica tenzone» – il primo verso del sonetto recita «mio padre è stato per me l’assassino».

Chissà se, nelle caverne in cui nasce l’opera, Piperno non si sia ispirato a questo sonetto (prendendolo alla lettera) per lo snodo narrativo centrale del libro: dopo che il padre è stato cacciato di casa per l’ennesima lite, torna ubriaco rivendicativo geloso e ha un ultimo scontro con la madre che cade dal terrazzo morendo poco dopo; senza che il figlio, unico testimone oculare, possa capire se è stato il padre a spingerla di sotto o se è stata lei a gettarsi mentre il padre con un urlo si è slanciato su di lei per trattenerla. Assassinio o suicidio (o magari incidente, la madre scivolata per lo spavento)?

Il tradimento del padre

A partire da questo momento (siamo a oltre metà del libro) l’affresco sociale perde importanza: il lettore smette di divertirsi per la splendidamente descritta vacanza del protagonista a New York, per le sue oscillazioni tra chitarra e scrittura, per le sue maldestre manovre sentimentali di onanista specializzato, per le sue pose da personaggio stendhaliano con «la maturità affettiva di un poppante» – o meglio non vengono meno l’autoironia né il cinismo autolesionista del narratore in prima persona, ma un’ombra infernale occupa sempre più spazio. È lo strato profondo e personale di cui parlavo all’inizio, in nome del quale a Piperno sfugge forse l’unica sbavatura narrativa, l’eccessiva vaghezza nell’iter giudiziario del padre (condannato a vent’anni in un processo non raccontato, poi misteriosamente riabilitato in una “revisione” tre anni dopo).

A occupare il centro dell’attenzione è il tradimento del padre da parte del protagonista: che non vuol sapere più niente di lui, si rifiuta di andarlo a trovare in carcere – il tribunale gli assegna come tutore lo zio ebreo più scioperato e libertino e il ragazzo si trova così bene nella nuova vita da rinunciare addirittura al cognome del padre per assumere quello ebraicissimo della madre, Sacerdoti. Vive da impostore, inventando inesistenti nonni morti nel lager («niente dà lustro a un pedigree giudaico come un paio di nonni trucidato dai nazisti»).

È un romanzo che sembra nato per dare fastidio: racconta un caso di uxoricidio ma il (presunto) assassino è «il padre migliore del mondo»; parlando con lo shakespeariano spettro della madre il neo-Sacerdoti inveisce contro gli ebrei («per voialtri non esiste nient’altro: solo quattrini e conoscenza, in quest’ordine preciso») e connota Israele come «una terra su cui, parliamoci chiaro, non potevano accampare nessun serio diritto legale»; lamentandosi del suo essere un déraciné arriva a definirsi «il frutto avariato di quel genere di interazioni genetiche che una società sana dovrebbe proibire».

Disperazione aggressiva che perfino sul tema che dà il titolo al libro, quello della colpa, assume una postura ideologica discutibile: nell’intento di stigmatizzare i giustizialisti di ogni colore («i farisei che infestano le redazioni giornalistiche») e di esaltare una giustizia più alta di quella dei tribunali, come nell’epigrafe da Tolstoj, ansioso di affermare che «la verità di un delitto è custodita gelosamente nel cuore dell’assassino», giunge a una formula assurda di auto-colpevolizzazione – tutto ciò che non va nella nostra vita è sempre e solo colpa nostra, o forse «non è colpa di nessuno», in spregio a ogni responsabilità della pòlis.

Il senso di un romanzo riuscito, come sempre, sta nella sua forma, cioè nella scrittura; la scrittura di Piperno è uno scudo difensivo, come se la lingua dovesse farsi perdonare i pensieri sottostanti. È uno stile che troverebbe disdicevole non apparire forbito, limato, ma proprio perché in difesa non è mai compiaciuto né estetizzante. La bravura ormai raggiunta nel creare caratteri tridimensionali, dettagli incisivi, anticipazioni astute, è tutta al servizio del lettore per farlo sentire a proprio agio; ma è qui, in questo sfoggio di buona educazione formale, che si annida il tormento segreto.

C’è un luogo, più arcaico dello stile, in cui padre e madre si scambiano i ruoli, innocenza e colpevolezza, sincerità e mistificazione si confondono, godere e dovere si mischiano, la regola è perversione, la gioia di vivere condanna al carcere se stessa, Cristo e Jehova si alleano nel medesimo ricatto – è la «ferita originaria» che spinge il protagonista nell’ultimo capitolo, quaranta anni dopo, a desiderare di metter fine alla propria stirpe invocando «il sacro vincolo della sterilità».

Il padre ha ritrovato la fede in galera e ora viene sepolto al Verano, lo zio ebreo ricco, sdegnato perché lui si è riconciliato col padre, lo ha diseredato, la cugina concupita nell’adolescenza ha creduto nell’aliyah, quindi si è trasferita in Israele dove ha prestato servizio militare e ha avuto un figlio caduto in combattimento. La vita, dopo essersi dispiegata in tutte le sue contraddizioni, finisce in un soffio, in un’insensatezza che lascia stremati; il racconto è a somma zero, resta la cognizione del dolore.

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