Non esiste più una persona in grado di contenere la verticalità mass-mediale del conduttore, semplicemente perché non esiste più la televisione come l’ha intesa il secolo breve nonché generalista
Cosa stavamo facendo quando abbiamo saputo della morte di Pippo Baudo? Eravamo tornati dal mare, nel sabato post-Ferragosto bagnato da piogge e malinconie righeiriane, in vacanza con la famiglia, a casa senza ombrellone per colpa dei balneari. Di certo non eravamo davanti alla televisione a guardare la replica di Evviva! con Gianni Morandi o quella di Ciao Darwin su Canale 5, un attimo prima che il Tg1 si organizzasse in fretta e furia per l’edizione straordinaria condotta da Giorgia Cardinaletti.
Facile da immaginare l’atmosfera di panico generale quando tra i grigi corridoi Rai, ultimo scampolo di prima Repubblica, è arrivata la notizia bomba nella settimana dell’anno in cui non c’è nessun artificiere nei paraggi: è morto il Presentatore, il volto della televisione di stato, quello che ha inventato tutti, il ventesimo secolo fatto format, il cervello di Sanremo, insomma lui, Pippo, e tutte quelle altre perifrasi che si possono usare per descrivere Baudo. Non stavamo guardando la televisione, ma è probabile che avessimo uno smartphone in mano, scossi da una notifica Ansa o collegati a un social in cui la comunicazione è esplosa prima ancora che in tv, generando una valanga di foto, video, pensieri e ricordi che ci hanno incollati a scrollare ancora più forte di prima, ciascuno nella bolla del suo palinsesto personale.
La tv di Pippo Baudo non esiste più
Se n’è andato in prima serata, di sabato sera, scrivono in tanti, alternando la considerazione al più classico e apocalittico commiato alle fine del Novecento; è scomparso nella stagione di Techetechetè, aggiungo, auto-omaggio o tempismo perfetto – che poi finisce sempre in estate, questo Novecento infinito, ad agosto, quando siamo distratti a vivere nel Duemila. Eppure, nessuno dei grandi nomi del contemporaneo potrebbe generare la reazione che si deflagra con la dipartita di un personaggio come Baudo. Non esiste più una persona in grado di contenere la verticalità mass-mediale del presentatore di Militello in Val di Catania, semplicemente perché non esiste più la televisione come l’ha intesa il secolo breve nonché generalista.
Quel mezzo unico, granitico e pervasivo che aveva il potere di tenere la gente attaccata allo schermo la domenica, quando si restava “In” casa, appunto, per non andare fuori a consumare, argine alle cattive abitudini italiane da boom economico, gite in macchina domenicali e spensieratezza petrolifera. Non esiste più, in altre parole, quell’idea di massa che si manifestava nelle grandi colonne portati identitarie del paese, i partiti e la loro emanazione diretta nei canali televisivi a cui erano associati, un tempo qui era tutta egemonia.
Pippo Baudo, lo zio d’Italia
E così, nella prateria sterminata del postmoderno digitale, scorrazzano le foto con Pippo. Tutti hanno un ricordo, una testimonianza, un aneddoto, un frammento televisivo, una scheggia di passato da aggiungere all’enorme mosaico di racconto affettuoso e familiare che compone la biografia del conduttore che, come in ogni transfert che si rispetti, un po’ sindrome di Stoccolma mediatica un po’ spontaneo affetto da martellamento decennale, diventa se non il padre d’Italia, quantomeno lo zio. Inutile criticare l’usanza contemporanea e asfissiante di celebrare un funerale collettivo su internet condividendo la testimonianza fotografica con il morto del giorno a riprova del proprio egocentrismo e della sete di engagement sentimentale, è così che funziona la memoria. La persona scomparsa vive attraverso ciò che si ricordano i vivi, e quando a non esserci più è un uomo di cui si ricordano tutti, ma proprio tutti, frenare il flusso di condivisioni, oltre che di mitomania autoreferenziale, è impossibile, oltre che insensato.
Quella villa a Santa Tecla
Io che sono nata nella stessa città di Baudo, e che ho riconosciuto le sue quasi impercettibili scorie fonetiche vulcaniche solo da adulta, ascoltando bene la voce della coscienza Rai scandire parole in dizione perfetta, Pippo lo collego alla sua villa a Santa Tecla. Ci si passava sotto con la macchina per andare a nord di Catania, verso Taormina, e la frase ricorrente era «lo sai che là c’era la casa di Pippo Baudo e Katia Ricciarelli? Lo sai che ci hanno messo una bomba?».
Di Baudo, infatti, si narra: democristiano, centrista, equilibrato, adatto a chiunque, nazional-popolare, come diceva di lui Enrico Manca con toni dispregiativi più che con lodi gramsciane, e al quale Baudo rispondeva «mi sforzerò di fare programmi regionali e impopolari».
Pacificatore del pubblico di massa, ma non sempre
E invece, a guardare bene la storia, il Pippo nazionale sapeva essere anche piuttosto estraneo a quel bollino crociato di temperanza che gli si attacca addosso in qualità di grande pacificatore del pubblico di massa, che pure era, ma non solo.
Litigi, polemiche e scazzi non mancano, da Cossiga che lo picconò a colpi di «uomo di scarsa cultura» e «manipolatore» ai vertici Rai che lo cacciarono e ripresero più volte, da Berlusconi – che gli scucì la casa all’Aventino, ora sede Medusa, per fargli pagare la penale dopo il suo abbandono precoce alle reti Fininvest che, a dire il vero, non lo avevano proprio accolto con calore – ad Agnes, fino alla pacata risposta data in una conferenza stampa organizzata dal Ciancio de La Sicilia: «La smetta di utilizzare il nome del padre per raccogliere voti», disse a Claudio Fava, dopo che il giornalista lo aveva definito «rampante e aggressivo», «perché mi sono rotto i coglioni», aggiunse.
Nazionale e popolare, ma anche regionale e impopolare
Nazionale e popolare, senza dubbio, ma anche regionale e impopolare, fedele alle origini nonostante attentati e screzi, avanguardia di Antenna Sicilia, dove esordì grazie a lui anche Barbara D’Urso, creatura baudiana insieme a Grillo, Hunziker e mille altri ancora, e all’occorrenza facinoroso della tv.
Così come non mancano gli errori, gli imbarazzi, le scivolate, schegge impazzite del tubo catodico che si sono infilate nei nostri occhi più della pacata quotidianità con cui ha costruito la sua solidissima carriera, dal tentato suicidio sugli spalti di Sanremo ‘95 alle toccate moleste di Roberto Benigni, dal clamoroso abbaglio con la bocciatura di Fiorello all’esame di scouting ai sudori freddi con Ugo Tognazzi che spara con la sua rivoltella di tabù nel pieno del pomeriggio bianco di Rai 1 temi-proiettili per la censura come prostituzione, marijuana e Br. «Scazzottiamoci. Prendiamoci a pesci in faccia, sputiamoci in faccia. Facciamo tutto quello che possiamo perché così serviamo il pubblico. Eh no, così lo imbarbariamo, il pubblico. Così lo fottiamo. E avremo un’Italia di merda» disse il Baudo furioso del 2008, reduce dal suo Sanremo più infelice, quello in cui crollarono gli ascolti e in cui vinse la “Colpo di fulmine” dell’improbabile duo Lola Ponce e Giò di Tonno. Nonostante la sua presenza demiurgica, e quello in cui, forse, il conduttore morì per la prima volta, quando si scontrò con il peggior nemico, la paura di non essere più adatto a fare qualcosa, anche quella che non solo ti riesce meglio ma che, si potrebbe dire, hai inventato tu.
Ma chi ha inventato Pippo Baudo?
«L’ho inventato io…» dice il ritornello baudiano, ma chi ha inventato Pippo Baudo? Il Novecento, il secolo che ci lascia orfani di certezze morendo in continuazione, come il conduttore stesso, del resto, che negli anni addietro era già stato dato per defunto su internet da decine di trappole clickbait che periodicamente ne annunciavano la triste scomparsa, sempre smentita, fino a oggi. E se fosse così che si vive per sempre? Tutto finisce, tutto muore, la televisione, la Dc e i partiti, noi, i nostri miti, forse persino Sanremo, tutto tranne due cose: il Novecento e Pippo Baudo.
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