La fase a gironi della Coppa d’Africa si è rivelata un’esplosione di gol e di emozioni che ha scatenato una festa continua sugli spalti degli stadi ivoriani. Danze più o meno note e visi iconici sono già entrati negli schermi televisivi e dei dispositivi mobili di spettatori e spettatrici. Non che ci fosse bisogno di una scorpacciata di reti per risvegliare nei tifosi africani lo spirito gioioso con cui solitamente vivono le partite di calcio. Il supporto, i canti e i balli tipici di ogni tifoseria non dipendono dal risultato né dal numero di gol segnati dalla propria nazionale. Sono un atto quasi dovuto, una maniera incondizionata di stare accanto alla squadra che si ramifica principalmente in due direzioni: lo stile nordafricano e quello dell’Africa subsahariana.

Le due vie del tifo

I sostenitori di Marocco, Algeria e Tunisia sono stati influenzati dalla cultura del tifo dei Paesi latini, europei e sudamericani. È una questione di prossimità geografica e maggior vicinanza culturale. Tra la fine degli anni ‘90 e l’inizio del nuovo millennio sono nati i primi gruppi ultras che si ispiravano a quelli più famosi della scena italiana, francese o sudamericana, in particolare argentina. In Coppa d’Africa non sono presenti gruppi ultras, ma i principi del tifo rimangono gli stessi ed è cosa comune vedere striscioni o ascoltare cori e canzoni infarciti di termini italiani, francesi e spagnoli.

Nell’Africa subsahariana, invece, l’esperienza allo stadio assume contorni completamente diversi, che potremmo definire quasi mistici. Il legame con la religione e, in senso più ampio, la spiritualità si esprime intensamente in ogni fase del tifo. «Questo avviene perché molti africani subsahariani tendono a non separare la sfera religiosa dagli altri ambiti della società», afferma Buster Emil Kirchner, studente di un master in studi africani all’Università di Copenaghen e giornalista esperto in calcio africano. «Per molte di queste persone tutto è interconnesso in un’unica sfera». In altre parole, secondo Kirchner, quando gli africani subsahariani hanno creato, in maniera naturale e organica, un proprio modo di intendere e vivere lo sport che era stato importato dai colonizzatori europei, inglobarlo nell’unica sfera di cui fanno parte tutti gli ambiti della vita era un modo per africanizzarlo. Generalmente nella parte del continente che inizia sotto la striscia del Sahel i canti gospel e qualunque altra canzone attinta dal repertorio delle cerimonie religiose sostituiscono i cori a cui siamo abituati alle nostre latitudini. Non c’è spazio per volgarità e violenza verbale. Gli sfottò e le prese in giro, che naturalmente esistono, sono relegate alla vita quotidiana, reale o virtuale.

No alla magia

In alcune circostanze si fa ancora ricorso a diverse pratiche di magia che le singole federazioni calcistiche e la confederazione continentale, la Caf, stanno combattendo da anni perché ritengono danneggi la reputazione del calcio africano agli occhi del mondo. Nella Coppa d’Africa del 2002 Thomas N’Kono, idolo di Gianluigi Buffon e al tempo preparatore dei portieri del Camerun, fu arrestato direttamente in campo perché accusato di aver tentato di sotterrare un amuleto juju, un sistema di credenze spirituali tipico dell’Africa occidentale, prima della semifinale contro il Mali. In passato il fenomeno era talmente diffuso che molte federazioni assoldavano figure a cui si attribuiscono doti taumaturgiche e divinatorie per poter contrastare la supposta stregoneria degli avversari. Oggi sono pratiche che, quando vengono utilizzate, sono portate avanti di nascosto. «Noi non siamo come i nostri fratelli che usano la stregoneria», afferma Botha Msila, storico tifoso delle nazionali sudafricane. «Noi preghiamo prima delle partite. Chiediamo a Dio la forza e la saggezza per sorreggere il nostro corpo quando supportiamo la squadra e aiutarci nel caso in cui gli avversari abbiano intenzione di usare qualche forma di magia».

All’interno del collettivo di sostenitori del Sudafrica convivono persone di fedi religiose differenti. Ognuno segue i propri rituali senza influire su quelli dei connazionali appartenenti ad altre religioni. Il tifo si articola, come detto, in balli e canti. «Urliamo, gridiamo e facciamo più rumore possibile», continua Msila. «Abbiamo canzoni per ogni emozione e sentimento e anche la danza dipende da come ci sentiamo in quel preciso momento». La loro attività è supportata da strumenti musicali quali i tamburi e le vuvuzelas, trombette di plastica ad aria che abbiamo imparato a conoscere durante i Mondiali del 2010 e che si sono poi diffuse in tutto il continente. I tamburi sono l’elemento distintivo del principale gruppo organizzato del Senegal, chiamato Douzième Gaindé, un’espressione misfrancese e wolof che sta per “Dodicesimo Leone” e che rimanda al soprannome del Senegal, i Leoni della Teranga. Aliou Ngom, detto Paco, si è unito al gruppo nel 2012 e da quel momento è diventato una delle figure più riconosciute del panorama calcistico africano.

Paco conferma l’utilizzo di riti e pratiche propiziatorie che, nel suo caso, sono incarnate da sei gris-gris, amuleti vudù che lui indossa in occasione di ogni partita. «È una questione culturale», sostiene, soffermandosi poi sull’importanza del tifo come veicolo di diffusione della cultura senegalese nel mondo. «I canti che scegliamo, i colori con cui ci vestiamo o dipingiamo il corpo e gli oggetti ornamentali che indossiamo sono tutti studiati con l’obiettivo di far conoscere le tradizioni del Senegal». Un altro aspetto che Paco fa emergere è la dipendenza dei gruppi di tifosi organizzati africani dai finanziamenti delle autorità statali, delle federazioni calcistiche o di altri soggetti, come gli stessi calciatori, facenti parte del mondo del pallone. «Senza il loro supporto economico non ci sarebbe tifo», conclude Paco, che è giunto in Costa d’Avorio solo dopo la gara d’esordio del Senegal contro il Gambia. Era in attesa che qualcuno sbloccasse i fondi necessari per farlo partecipare alla festa della Coppa d’Africa.

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