Mi alzo prima dell’alba in un armadio senza porta, spalancato come un terrazzo sul resto della casa ancora in costruzione. La lampada, regalo di due amiche innamorate, è ancora incartata, e l’Ikea ha intagliato nell’isola della cucina un foro troppo piccolo per il piano cottura. Manca il tavolo per scrivere alla finestra, manca l’ultimo gradino delle scale che portano in giardino, manca il Wi-Fi. Soprattutto, mancano i condizionatori da cui, in America, sono diventato mio malgrado dipendente, e mi dico che è per questo che, in quell’armadio senza porta, non ho dormito affatto.

Mi dico che c’entra il jet lag, e la ronzante lama d’aria che il ventilatore, prontamente acquistato dal biondo economista in erba che dorme (beata gioventù) di sotto, mi punta alla gola, e poi il frastuono che una madre di quel biondo (l’altra, come me, ama svegliarsi tardi) non può resistere dal procurare, architetta montanara e mattiniera, quando porta fuori il pattume nel cuore della notte—imperativa, risoluta, come fosse una missione militare.

Mi dico che è il lettuccio francescano, così scomodo nell’accogliente abbraccio degli abiti che mi circondano (metà straordinari, metà da mercato), a tenermi all’erta, a sgranare i pensieri come lungo un inesauribile rosario nei vapori della veglia. Tutte scuse ovviamente, ma me ne accorgerò solo ripensandoci tra qualche giorno. Per ora penso solo che non avevo mai provato a dormirci, in un armadio.

La metafora

Un armadio senza porta… Curiosamente, non rifletterò neanche sull’ironia di una simile metafora; non finché non mi siederò a scrivere, tornato in America, di questi formidabili giorni in Italia. Ma forse non è poi così curioso, giacché è difficile riconoscere le metafore che ci si ritrova ad abitare quando si è pieni di sonno—e di caldo: oggi sarà il giorno, mi pare, più caldo che Roma abbia mai visto dall’incendio di Nerone.

In ogni caso, al cospetto del ventilatore che anima i mille vestiti appesi in questo armadio senza porta come fossero foglie caduche, o spettri di pirati impiccati all’albero d’un veliero fantasma, non penso ancora al fatto che è proprio questo che mi ha insegnato la padrona di casa, anche lei piena di sonno nella stanza accanto—l’altra madre del biondo dico, che in un certo senso è madre anche a me.

Michela Murgia, come la chiamava la nazione in cui è diventata un’icona politico-letteraria, mi ha insegnato che gli armadi non sono necessariamente intransitivi nascondigli: basta farli permeabili (per esempio, non montandoci la porta). Se manca la porta, se l’uscio contagia con la sua liminarità di soglia tutto lo spazio in cui dilaga senza più argine, che senso ha pensare in termini di dentro e di fuori? Se il privato è abbastanza specchiato da poter essere esibito con l’orgoglio dell’esempio, che bisogno c’è di distinguerlo dal pubblico—il quale comunque tenterebbe d’intrufolarvicisi, strisciante come una spia o aggressivo come un troll? Se il personale è politico, raganella che prospera tra equorei e terrestri reami senza dover (senza poter) scegliere da che parte stare, perché non ne dovremmo sfruttare la capace anfibologia?

Era del segno dei Gemelli Michela Murgia, ascendente Gemelli. Era cresciuta sulla riva di uno stagno, il più grande d’Europa diceva. E questo è il ricordo di quando intontito sono andato a strapazzarle un uovo, sul piano cottura che non entrava nel foro tagliato male dall’Ikea. Era sveglia anche lei.

L’unico libro

Pare che una scrittrice vera, per quanto possa apparire eclettica e piena di storie, scriva sempre lo stesso libro. L’ultimo libro di Michela, in questa sua nuova casa ancora da finire, non c’era. Ma fuori di qui è ovunque: l’ho visto all’aeroporto appena atterrato, alla libreria di Roma nord in cui mi sono avventurato a parlare del mio con un’amica dei tempi dell’università, tra le mani di passanti, tra le pieghe delle borse da mare.

È sugli scaffali di decine di migliaia di altre case, finite e magari condizionate, con gli armadi chiusi o aperti; è sulla bocca di tutti. Il curatore delle pagine culturali con cui collaboro, che tra pochi giorni m’intimerà di scrivere queste righe, mi scrive che quel libro raggiungerà presto le centomila copie. Bisogna proprio essere dei Gemelli, essere raganelle, per intestardirsi a mettere insieme coppie di opposti che solitamente si rifuggono: per nutrire l’ambizione di risultare fini e popolari, complessi e leggibili, spietati e compassionevoli, come Michela in questo libro tenebroso e chiaro, scritto come una sinfonia e venduto come un tormentone, intitolato Tre ciotole. Per Mondadori Strade blu.

L’uovo, strapazzatolo, lo metto in una ciotola sola, e infilo due ghiaccioli alla frutta in una tazza comprata da Michela in Irlanda con il brillante chimico che tra poco ci raggiungerà assieme alla sua sposa attrice dai capelli ramati. Mi rallegro del fatto che quella tazza sia sopravvissuta al trasloco.

L’incantesimo

Dicevo che una scrittrice vera scrive sempre lo stesso libro, e forse è per questo che il successo di Tre ciotole si sta sposando a un revival di Accabadora, il romanzo che quasi quindici anni orsono lanciò il mito di Michela in dozzine di lingue a tutte le latitudini. La fantasia di un appartenere di là dall’identità, di una famiglia di là dal sangue come la nostra, manifestata in questa casa ancora da completare e nel libro che ha contribuito a pagarne le mura, era già in quell’altro, più antico libro, la cui prima edizione precede di due anni la prima traduzione in italiano del primo libro di teoria queer, Stanze private di Eve K. Sedwick. Il titolo originale di quel libro (ecco l’ironia di cui sopra) è “epistemologia dell’armadio”.

Un’altra idea che c’era già in Accabadora, e che a ben vedere si è articolata in tutte le scritture di Michela Murgia (anche in quelle che hanno letto in pochi, come le schermate del gioco di ruolo via chat su cui ci siamo conosciuti vent’anni fa, e persino in quelle che non ha letto quasi nessuno, come le pagine del romanzo che sta scrivendo dopo lustri di gestazione) è che il linguaggio sia un incantesimo, che le parole producano realtà. Non nel senso irresponsabile e postmoderno di chi si esime dall’azione pensando che a parole si cambi il mondo: in un senso arturiano invece, addirittura biblico.

Solo pochi mesi fa Michela fantasticava raccontando di una casa col giardino, di un’adunata, di una notte di festa, e ora eccoci radunati in questa casa, servi d’amore, a preparare il giardino per festeggiare stanotte. Solo poche settimane fa intesseva un numero di Vanity Fair sul modo di stare insieme, legati indissolubilmente senza essere in alcun modo costretti, che pratichiamo stamane come se abitassimo da sempre tutti in questa casa ancora da completare.

Parole irricevibili

Bisogna essere giudiziosi quando si esercita con coscienza una tale stregoneria verbale. Il rischio è di trovarsi da soli a spendere parole che il potere trova irricevibili, perché fanno reale (e dunque passibile di lotta) quel che, finché non gli si dà un nome, rimane confortevolmente implicito e trascurabile: la discriminazione, la malattia. O il fascismo, per dire. È anche un antidoto a quella solitudine, la festa che prepariamo.

Lo sa bene lo scrittore che era venuto a montarle le mensole per le spezie, mentre noialtri bimbi sperduti (il biondo economista, il chimico brillante, l’attore che Michela ha legalmente sposato per togliere la porta anche alle leggi dello stato oltre che all’armadio in cui non ho dormito) componevamo comodini, spazzavamo fiori d’ibisco dall’acciottolato, buttavamo accumuli decennali di borse di borse di borse di tela emerse dalle scatole. Era raggiante, quello scrittore napoletano: sorrideva come un dodicenne, c’incantava con le sue storie prossime e aliene. Nei lavori in corso, sembrava come in vacanza.

Quando arriva la fotografa, coi suoi capelli da amazzone e le scarpe arcobaleno, mi trova che fumo con l’attore. Lui, calmo come un mare di mattina, mi stava raccontando della messinscena dei Masnadieri di Schiller cui lavora. Lei mi abbraccia, mi pulisce gli occhiali da sole come se mi tergesse gli occhi dalle lacrime, indovina la mia improvvisa malinconia. Forse la prova anche lei.

Ma è un attimo: è ora di mettere sugli alberi, adesso che le api hanno finito di visitarli, i bouquet che la grande stilista ci ha inviato da Parigi, e di organizzare tra i rami le lucine che l’attrice dai capelli ramati ha portato da Monza.

Col suo bro sceso in treno da Vicenza, riccio come un problema complicato ma risolvibile, l’economista biondo versa acqua gelida e ghiaccio in una tinozza da cui estrarremo vini e chinotti, portati in un carrello dal marito sornione e allegrissimo dell’architetta che ha congedato gli operai—la lampada è montata, la libreria pure, lei mi coopta per appendere quadri e specchi secondo geometrie da politecnico.

Un’eretica

Esco a comprare il gelato, che tra poche ore mi macchierà l’abito su misura. Lungo la strada ripenso a quando, recensendo Istruzioni per diventare fascisti prima che diventasse un caso anche in America, scrissi sul manifesto che Michela, nella storia della nostra cultura moderna, va studiata allo specchio di Pier Paolo Pasolini. Lo penso ancora, mi dico.

Ma non solo perché Chirù, il romanzo in cui otto anni fa già raccontava le cose che oggi i giornali commentano con meraviglia inusitata (non solo la kinship queer, non solo la lotta di classe intergenerazionale, ma anche il cancro), è abitato dallo spettro del Gennariello delle Lettere luterane, o perché Michela faceva su Instagram quello che Pasolini faceva sul Corriere, o perché anche lui era nato sotto un segno doppio—quello dei Pesci.

Il fatto è che, come Pasolini, Michela era un’eretica intellettuale gramsciana, cioè un’ottimista della volontà incapace di divorziare la teoria dalla pratica: una per cui il corpo non è l’intralcio ma lo strumento principe della mente, da spendere senza riserve. Come la scrittura. Scriveva sempre Pasolini, ha riempito dieci meridiani (senza contare le lettere, i diari, gli appunti) in cinquantatré anni di vita. E Michela sta scrivendo persino ora, mentre pago il gelato.

Scrive voti non nuziali che alla festa non pronuncerà nemmeno: li scrive non per noialtri sposi e spose, convenuti a celebrarla come fosse nata oggi sotto il segno del Leone cui assomiglia, ma per gli altri, così spesso titolari del suo corpo e della sua scrittura.

Per chi non ci sarà stanotte: per quel mezzo milione di convitati di pietra che la segue, e per tutti gli altri che la leggono: per un pasoliniano magma di gente di cui, a volte, mi sorprendo geloso—giacché in fondo vorrei che scrivesse solo per me.

Album di famiglia

Riposto il gelato nel congelatore, mi raggiunge l’amorevole messaggio vocale di un’altra scrittrice che, su un altro giornale, ho paragonato a Pasolini. È una chat condivisa, di famiglia, e le ha già risposto una terza scrittrice, che paragonerei invece ad Arbasino — è un’archivista gotica, di origini piacentine, mondana d’una mondanità raffinatissima e melodrammatica, avanguardista senza averne l’aria.

La gotica, che vive a Roma come l’altra e dunque non ha dormito qui (e dunque, verosimilmente, ha dormito), sta per arrivare con suo marito, di cui non approva le scarpe. Devo perciò cambiarmi, ci siamo quasi. Nei giorni scorsi siamo tutti andati a provarci gli abiti candidi, da sofisticati alieni, che la stilista ha confezionato per noi quando Michela le ha raccontato della festa: un regalo assurdo, da mille e una notte in bianco.

L’anello, ormai famoso dopo un post virale, ce l’ho già al mignolo, con la rana anche lei bianca incastonata sulla resina scintillante. Infilandomi nell’outfit da papa che ho scelto ripenso a quando, nella chat di cui sopra, ragionavamo dell’opportunità di indossare simili opere d’arte nell’armadio senza porta di questa serata privata, sapendo benissimo che è anche pubblica.

Non finiremo a fare la figura dei ricchi che non siamo, in questa casetta eroicamente messa insieme per via di parole magiche e titaniche fatiche? Non appariremo snob, siderali: un privilegiato tè dei matti, una delle lobby (o delle sette addirittura) che la destra immagina si radunino nei giardini romani per orchestrare dittature del gender e sostituzioni etniche? Ma sto dimenticandomi di Pasolini, dell’epistemologia del closet. Sto dimenticandomi che Michela mi ha insegnato che sulla soglia tra gioie del mondo e verità dello spirito, fatti intimi e destini collettivi, performance politiche e scherzi tra di noi, non c’è alcuna porta.

Musica, maestro

Ecco che arriva il figlio prediletto, pieno di capelli e sinuoso come un gatto: il baritono di ritorno da recite a Tokyo e a Pesaro, che una volta Michela mi mandò ventenne a Pisa perché prendessi con lui un caffè con la panna. Lei è ancora in pigiama, quando ci sediamo sul letto a cantare canzoni di chiesa (mi sorprendo di ricordarle a memoria come quelle dei cartoni) ci ammaestra, come suo solito, sulla loro origine ed esegesi. La breve lezione sul Concilio Vaticano II è interrotta dal sopraggiungere della scrittrice gotica, splendida nella sua coroncina di fiori.

Torna anche lo scrittore napoletano, nelle luci del crepuscolo sfavilla un Kalashnikov di cristallo che porta in regalo. Mi ritrovo in giardino, le piccole falene che impazzano contro le lampadine mi fanno pensare all’Incontro, forse il più breve e il meno citato tra i libri di Michela, in cui su simili vite metamorfiche una bambina che non sa di essere femminista compie un miracolo.

Arriva l’editore, che contando noi quattro figli domanda impertinente perché siamo tutti maschi. Arriva la fata, la magica presenza che conosco di meno in questa piccola rete di parentele, e su cui tornerò alla fine di questo racconto. Ha scelto il mio stesso outfit, ma invece di sembrare il Papa sembra l’umile regina di un’isola ariostesca, eloquentemente taciturna.

Quando arriva anche Chiara, il mio duca bianco, ha al braccio la sua incandescente fidanzata, che una volta a New York m’innamorò coi suoi pantaloni d’oro e i tacchi da stella in metropolitana. Se non vedo arrivare Michela, nel suo abito da bucaniera elfica ricamato col titolo del coraggioso seguito di Ave Mary, God Save the Queer, è perché, seduta sul divano sotto la pergola aggredita dalla buganvillea, è come se fosse stata sempre qui, tra noi.

L’attore estrae una chitarra, fa un numero da maestro—è anche musicista, a dire il vero. Poi la chitarra passa al baritono, e prendiamo a intonare le serissime canzoni demenziali di Elio e le storie tese (in particolare quella sul cassonetto differenziato per il frutto del peccato che Michela richiese alla pianista della Rai quando una volta la intervistò Marzullo) senza più neanche un pensiero. Tra le mille immagini scattate dalla fotografa non riuscirò a trovarne una in cui non appariamo, senza sforzo, felici. Siamo tempesta.

I segreti 

Piangerò, devo ammetterlo, ma solo dopo ore di risate. L’inferno, del resto, è una buona memoria. Sarà già tornato a casa sua chi vive a Roma, il gelato sarà già finito sul mio preziosissimo completo papale. Michela, sazia di gioia come quasi mai è capace di sentirsi davvero chi esaudisce i propri desideri, sarà già tornata nella sua stanza accanto al mio armadio senza porta.

Instagram sarà già pieno di storie che ispireranno fruttuosi paralleli tra quel che va dicendo lei e quel che dicono Donna Haraway e Lauren Berlant: articoli, post e commenti su cosa sia la genitorialità se la liberiamo dagli imperativi biologici, sulla differenza (che Pasolini già predicava mezzo secolo fa, venendo scambiato per reazionario) tra il paradigma radicale della queerness e quello normalizzante della tolleranza, della normalizzazione.

La missione sarà compiuta, la pattumiera pronta per le impazienze mattutine dell’architetta montanara. Farà quasi fresco, o almeno io sentirò una specie di brezza. Sarà la fata a farmi piangere, la donna misteriosa di nome Patrizia, una sorella della mia mamma d’anima che, invece della magia delle parole, è maestra di quella del silenzio. Senza parlare, infatti, mi chiamerà a sé assieme agli altri ragazzi che ormai amerò davvero come fratelli. E, con le dita nei capelli del baritono, mi dirà ciò che poi non mi parrà di dover scrivere nel racconto di questa notte in bianco che invierò al giornale dall’America, ancora commosso.

Anche se non deve per forza essere un nascondiglio d’altronde, come mi ha mostrato Michela a diciassette anni quando avevo bisogno d’imparare che certe qualità bisogna farsele perdonare (e che se un’altra anima conosce la tua davvero, non serve essere noti a nessun altro), un armadio senza porta è pur sempre capace abbastanza da tenerli in salvo, alcuni segreti.

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