Chi può eccepire sul Leone d’oro a Poor Things? Praticamente nessuno. Con le ali del leone di San Marco il film di Yorgos Lanthimos volerà agli Oscar per dar fastidio a Oppenheimer.

È significativo che nel palmarès di Venezia confluiscano i soli due film in concorso che flirtano con il genere horror: l’altro è El Conde di Pablo Larraìn, argento per la sceneggiatura, che converte Pinochet e la Iron Lady Margaret Thatcher in vampiri succhiatori del sangue di comunisti e lavoratori.

La satira in bianco e nero di Larraìn esce direttamente su piattaforma (Netflix) senza passare per le sale. Poor Things invece appartiene a quel benedetto tipo di film che non ti fa rimpiangere i soldi del biglietto.

L’esperimento

Meravigliosamente folle come il suo scienziato Godwin Baxter (Willem Dafoe), l’autore greco di La Favorita gioca sul diminutivo di Godwin, God, cioè Dio, per rivisitare Frankenstein sulle orme di un gran bel romanzo di Alastair Gray.

Il titolo iconico di Roger Vadim, Et Dieu créa la femme, qui va preso alla lettera. Il Dr. God è un genio della chirurgia spericolata sfigurato dalle cicatrici, perché a sua volta ha fatto da cavia a un genitore in vena di esperimenti.

È un freak insomma, e Freaks di Tod Browning è un riferimento onnipresente in tutta la prima parte del film: bianco e nero, anche qui, e uno zoo di polli-maiali, oche-cani, galline-bulldog esilaranti.

Il vero orgoglio di God però è Bella (una impressionante Emma Stone, che torna con Lanthimos dopo La Favorita), la donna che ha recuperato suicida dal Tamigi e nel cui cranio ha trapiantato il cervello del feto che portava in grembo.

L’emancipazione

Uno studente meno schizzinoso degli altri accetta di annotare l’evoluzione di Bella, che ha l’età mentale di un neonato in un corpo adulto ed è puro istinto: sputa, fracassa in libertà e si tocca in pubblico i genitali con l’innocenza che ai civilizzati è negata.

Essendo immune all’autorità e libera per manipolazione chirurgica, scappa dalla sua prigione dorata col primo tizio che la illumina sulle gioie del sesso.

Il fortunato (per poco) è Mark Ruffalo, perfetto come tutti gli altri nella sua incarnazione di viveur libertino. È una fiaba visionaria di emancipazione, che fa bruciare le tappe alla Creatura.

Nell’iperbolica Belle Epoque di Lisbona, Alessandria d’Egitto e Parigi, tra hotel di lusso e bastimenti Art Nouveau incorniciati da fondali dipinti, lo sfruttatore sessuale sarà schiavizzato, Bella scoprirà i libri e il socialismo nonché un fantastico mezzo di emancipazione economica: nei bordelli puoi fare sesso e per questo ti pagano. Tralascio il seguito per non guastare il piacere.

Un imprevisto

È cinema con la maiuscola, era impossibile non dargli il Leone. Però hai voglia di farti sorprendere, dopo undici giorni e almeno 23 film macinati (23 quelli in gara, ma purtroppo o per fortuna ne vedi molti di più). Hai bisogno di uno zuccherino imprevisto.

Il mio zuccherino è il Gran Premio della Giuria a Evil does not exist di Ryusuke Hamaguchi, il giapponese già Oscar per il film straniero con Drive my car. Sancisce sottovoce, con sublime lirismo, l’incompatibilità tra business capitalista e rispetto della Natura.

È ambientalismo politico radicale, che ruota intorno a una storia minima.

Carne da macello

In un paesino sperduto tra le montagne una società bramosa di finanziamenti statali piazzerà un glamping, cioè un camping glamour per turisti ricchi. I paesani dovrebbero fare salti di gioia per gli yen in arrivo, ma invece no.

C’è una coscienza lucida delle ricadute, tra i montanari, che sconcerta gli emissari. E infatti succederà il peggio, molto prima che l’insediamento si crei: anche il minimo varco provoca distruzione. E’ un piccolo film, Davide in mezzo ai Golia. ma ha avuto l’argento del secondo premio.

Terzo filone trionfante: i migranti. Io capitano di Matteo Garrone, che è già nelle nostre sale, ha avuto l’argento per la regia e il premio Mastroianni per l’esordiente al suo ragazzino senegalese protagonista, Seymou Sarr. Tra i sei italiani in gara è il più puro, limpido ed essenziale, “senza sovrastrutture”, come dice il regista.

Lui gira (bene) a colori la via crucis dal Senegal fino alle coste italiane. Agnieszka Holland, che ha avuto il Premio Speciale della Giuria, si concentra sul sadismo di Stato e le strumentalizzazioni politiche al confine tra Bielorussia e Polonia.

A differenza dei profughi ucraini, a cui la Polonia ha spalancato le porte, i disperati in arrivo dal medio oriente sono carne da macello, e i volontari che li soccorrono per quei gran statisti al potere sono fuorilegge.

Le coppe volpi

Peccato per le coppe volpi agli interpreti, che sono andate al Peter Sarsgaard di Memory, Michel Franco regista, e alla Cailee Spaeny dell’insopportabile Priscilla. Il biopic della signora Presley diretto da Sofia Coppola è un fotoromanzo noioso, però un nome come il suo bisogna tenerselo buono. Io mi spiego il premio così.

Il film di Franco è dignitoso, Sarsgaard fa tenerezza ma non brilla per originalità. Il Caleb Landry Jones di Luc Besson in Dogman gli dà le piste alla grande. Emma Stone non la si poteva premiare perchè lo Statuto della Mostra non consente di cumulare altri trofei al Leone.

C’era però una magnifica Alba Rohrwacher in Hors-saison di Stéphane Brizé, se la Carey Mulligan di Maestro, il biopic di Bradley Cooper su Leonard Bernstein, suonava troppo mainstream per giurati carismatici come Damien Chazelle, il presidente, Jane Campion e Martin McDonagh.

Imperscrutabili giochi del Caso, come vuole Woody Allen, o più prosaiche considerazioni che nessuno ci svelerà mai?

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