Come piace dire ai ragazzi, imitando un’espressione inglese che radica nell’immaginario religioso, Maria Luisa Frisa è ormai un’icona. È la decana degli studi sulla moda in Italia, cioè nel Paese che sulla moda investe più capitale simbolico per immaginarsi ancora culturalmente riconoscibile, originale e rilevante. Lo è perché ha scritto il manuale più versatile e facile da studiare per capirla, Le forme della moda, recentemente ri-uscito con il Mulino, e perché ha fondato e diretto un corso di laurea dedicato alla moda. Lo è perché alla moda ha anche dedicato le più sofisticate mostre retrospettive degli ultimi tempi (inclusa quella da poco inaugurata al MAXXI di Roma), sempre accompagnate da cataloghi di straordinaria ricchezza, che spesso sono più esaustivi della mostra stessa. È una teorica formidabile, formatasi nel campo dell’estetica e della storia dell’arte, ideatrice e direttrice dell’allucinante rivista Dune che, da qualche anno, fa periodicamente il punto sui nodi più all’avanguardia del discorso estetico e performativo sulla moda. Ma è anche devota alla prassi: scrive raffinati copy per marchi di portata globale, cura la strategia concettuale di direttori artistici e sfilate-evento, interviene sui giornali, alla radio, nei podcast.

Una figura così, uno se la potrebbe immaginare altera e implacabile come Anna Wintour (o la sua caricatura cinematografica Miranda Priestly de Il diavolo veste Prada), svagata e mondana come le eredi di Carrie Bradshaw di Sex and the City, o magari roboante e protagonista come Lady Gaga, o Anna Dello Russo.

La ricerca

Al contrario, Frisa è terrestre, vigile, calorosamente rigorosa. È una storyteller, una raconteuse, una griot. Della moda, cioè, fila sempre una narrativa che intesse Storia e processi correnti, destini individuali e collettivi, il sistema materiale dietro le quinte e le sue delicate espressioni sulla scena. Coi suoi bracciali vistosi e gemelli, stretti sul nero minimalista di completi degni dell’antagonista di un cartone animato giapponese d’autore del 1999, Frisa ha sempre più a cuore la struttura che non le tendenze della moda. La sua forza non è nell’intuizione, nello stile, nell’associazione (tutti elementi chiave della mitologia dei protagonisti di questo settore) ma nell’archivio, nella biblioteca, in un’organizzata e informata memoria storica. Frisa non è un’operatrice della moda prestata alla scrittura, alla curatela, all’insegnamento: è invece una ricercatrice che ha scelto la moda come suo terreno d’indagine.

Per farlo, come sa bene chi si occupa di analoghe cose viventi come l’arte contemporanea o la politica, bisogna visitarne le stanze dei bottoni, le basse cucine, i laboratori, i lavoratori. Ma il punto non è solo, per esempio recuperare idee geniali di Gucci cadute nel dimenticatoio (cose che, incidentalmente, Frisa ha fatto e fa): il punto è imparare. E il fine di tale apprendimento è a sua volta pedagogico: educare alla moda chi crede che la moda sia solo quel che va di moda.

L’antologia

Da pochi giorni è uscito in Italia l’ultimo libro di Maria Luisa Frisa: I racconti della moda, edito da Einaudi per le sue cure. È un’antologia da cui si capisce, con godimento di lettura, l’idea ecumenica, teorico-pratica e latamente politica che Frisa ha costruito sulla moda nel corso della sua proteiforme carriera. Si capisce, voglio dire, che la moda è una questione che ci poniamo tutti i giorni da quando l’umanità ha lasciato l’Eden — anzi, da prima, giacché i progenitori Adamo ed Eva hanno dovuto porsi il problema di indossare qualcosa immediatamente dopo aver addentato il frutto della conoscenza.

Non vi aspettate solo storie di boutique e sfilate, di stilisti e collezioni, di modelle e di fotografie. I racconti scelti da Frisa sono, soprattutto, storie di vestiti, o meglio storie d’amore tra corpi vivi e materie inerti, tra identità e loro espressioni. Ci ricordano che la moda è una questione di vestiti appunto: di schermi che nascondono (e spesso, nascondendolo, ne disegnano il profilo) l’imbarazzante vuoto della nostra nudità, ma che soprattutto vi proiettano i nostri desideri, le nostre ansie, la nostra aspirazione a distinguerci o ad apparire come tutti gli altri. Quindici racconti ad altissima temperatura letteraria sui temi più rivelatori e umanamente appassionanti che il vestirsi (o il non svestirsi) suggerisce: genere, sesso e sessualità, intimità, segreti, libertà e regole, socialità e solitudine, il conformismo e i suoi contravveleni.

Da buona accademica Frisa ci offre la prosa di un genio dimenticato del costume come Irene Brin, leggendaria commentatrice novecentesca dell’industria fashion, le cui "brinate” hanno fatto scuola. Recupera anche quella fine e spiccia di Gianna Manzini, scegliendo un brano che ci accompagna nello spazio regolato e artistico dell’atelier, e soprattutto quella sobriamente bombastica di un dandy d’antan come Lucio Ridenti, coi suoi fazzoletti («l’eleganza in tasca»), le sue spente flanelle (antidoto all’«orgia di colore a poco prezzo in cui viviamo per colpa degli americani») e la sua convinzione che la moda maschile sia «un fatto di civiltà».

Su questi classici in ombra del tema Frisa costruisce, nelle sue note di lettura, una archeologia dell’immaginario sugli abiti che mobilita poesia, arte e quotidianità, facendo della loro apparente collocazione in un determinato punto della storia dell’eleganza solo un’illusione cronologica: con un po’ di filologia, di teoria e di esperienza comune, i ragionamenti del secolo scorso rimangono vitali ancora oggi.

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I corpi

I corpi, lo dicevo, sono i co-protagonisti essenziali di questa galleria di racconti, ed emergono in tutta la loro complessità in due testi meravigliosi (e meravigliosamente tradotti) di due autrici millennial del Nord America: Kim Fu e Tanisha C. Ford, che saranno probabilmente scoperte graditissime per chi leggerà l’antologia. Gli altri personaggi principali sono però gli oggetti: le cravatte di Pier Vittorio Tondelli ad esempio, estratte da una pagina indimenticabile sulla Patti Smith in abiti genderbending ritratta da Robert Mapplethorpe nel 1984.

Un racconto terso e tormentato scelto da Frisa è quello che Jhumpa Lahiri, tornando a scrivere in inglese dopo un’ubriacatura d’italiano, ha dedicato pochi anni fa al desiderio di divise che nutriva a Calcutta, quando andava a trovare la famiglia d’origine da migrante americana e si sentiva anche più diversa e inassimilabile di quanto non la facessero sentire il suo nome e la sua etnia nel Rhode Island degli anni Ottanta. Un altro racconto in cui è difficile decidere se il primo piano sia sui vestiti o su chi li porta è quello di Joyce Carol Oates, che chiude la raccolta sul tema sottilmente inquietante dell’adolescenza — e in particolare dell’adolescenza femminile. E poi c’è il racconto di bell hooks, la grande teorica dello sguardo maschile, in cui gli abiti sono alleati e strumenti di piacere.

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Le gabbie del gender

Il racconto più entusiasmante di tutti è forse quello che Frisa stessa, dalla specola sorniona e understated del suo commento in corpo minore, imbastisce per tenere insieme le molte anime della sua raccolta. Non si tratta di guide alla lettura o constatazioni tecniche, ma di un viaggio narrativo (da storyteller, da raconteuse, da griot della moda) nella memoria, nel pensiero e nell’immaginario. Vi troviamo tutta l’euforia apocalittica e postmoderna di Frisa, tra Lynch e Baudrillard, la Riccione di Isabella Santacroce e la Roma delle gallerie del dopoguerra, il punk e il post-strutturalismo. Soprattutto vi troviamo Frisa medesima, scocciata dalle gabbie del gender e sedotta da vampiri e altre creature queer: una pensierosa lettrice di forme e testi che interroga prima di tutto il proprio corpo, la propria cultura, il proprio inconscio.

Non posso non emozionarmi a leggere quel che scrive in margine al prezioso racconto di Michela Murgia che ha incluso, I vestiti del notaio, mai stampato prima. È una storia di borghesia cagliaritana, facciate rispettabili e segreti di godimento e jouissance vestimentaria, oltre i confini dell’identità di genere. Riffando con questa gemma letteraria ritrovata, Frisa ci ricorda che una delle magie che la moda garantisce è quella di spezzare la stanca unità inscalfibile dell’identità, emancipandoci dall’aspettativa di rimanere sempre identici. «Travestirci con panni altrui» scrive la curatrice «ci cambia, ci libera da noi stessi», e a volte i vestiti (più o meno metaforici) compiono questo prodigio anche dopo la scomparsa dei nostri corpi… ma questo è un po’ uno spoiler, scusate!

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