Non sono sicura al cento per cento che viaggiare mi piaccia. Devo dirlo a bassa voce, perché è una di quelle opinioni con cui uno rischia di perdere gli amici. Puoi dire senza paura che odi i bambini, che li metteresti tutti sotto con la macchina, e troverai sempre un qualche alleato, ma prova a dire che della foresta Amazzonica non te ne sbatte niente e ti troverai scrutato da occhi sospettosi e colmi di disprezzo.

Non è che viaggiare non mi piaccia, è che sono una persona tendenzialmente ansiosa con scarsa tolleranza per la fatica fisica, due caratteristiche che non si sposano bene con il tipo di viaggio che quelli che amano viaggiare per davvero vogliono fare.

Il mio programma

Di solito la mia routine delle vacanze è questa: passo il mese prima a stressarmi con liste di cose da portare e il giorno della partenza vado in aeroporto con troppe ore di anticipo e mi sottopongo ai controlli con l’aria colpevole di una terrorista imbottita di tritolo.

In aereo non dormo mai perché per tutta la durata del volo penso alla morte lenta e terrificante a cui andremo incontro se precipitiamo, quindi ne approfitto per guardare quattro o cinque film orrendi che non avrei mai voluto vedere e inizio prepararmi psicologicamente al blocco intestinale a cui andrò incontro.

Poi nel corso del viaggio vero e proprio mi rilasso e conservo una certa dignità, schivando proposte di zip-line, notti all’aperto e altre attività troppo estreme per i miei gusti da grand tour ottocentesco, almeno fino agli ultimi due giorni, momento in cui mi monta un misto di nostalgia di casa e ansia da tragedia imminente, per cui non riesco a non pensare che se fino a quel momento è andato tutto bene sicuramente finirò accoltellata in dirittura d’arrivo, e il mio corpo verrà ritrovato in una pozzanghera del terzo mondo a meno di 24 ore dal volo di ritorno.

Non che essere accoltellata all’inizio della vacanza sia una prospettiva più allettante, ma alla fine, mentre sento già nelle narici il profumo dell’ammorbidente da 19 euro che uso a Milano, diventa un chiodo fisso.

Estate a Focene

Come forse a questo punto avrete intuito, non ho viaggiato molto nella mia vita. Ho passato la maggior parte delle estati della mia infanzia nella casa al mare dei miei nonni materni a Focene, località molto amata da Giorgia Meloni e credo da nessun altro (solo Gitta, la nostra vicina di casa tedesca, sosteneva che tramonti più belli di quelli di Focene non li avesse mai visti, “neanche in India”).

La spiaggia negli anni Novanta era una distesa di catrame, siringhe e bidet abbandonati e non c’era molto da fare per una bambina della mia età, ma forse neanche per un adulto, soprattutto se non avvezzo all’eroina. In quelle estati mia madre scopriva che a lei invece viaggiare piaceva moltissimo e quindi, giustamente, mi parcheggiava lì per settimane, la cui durata dilatata credo sia stata spiegata in qualche film di Christopher Nolan.

Storia dei miei viaggi

Dai miei genitori venivo in compenso inclusa nei viaggi in Europa, ma quello non è considerato viaggiare dalle persone che amano viaggiare e si bullano di riuscire a passare un mese in Sudamerica con nient’altro che quattro mutande in un marsupio.

Quindi quando ho cominciato a viaggiare da sola intorno ai 18 anni, passando prima un mese a Parigi e poi un paio di estati a Londra, sentendomi una grande donna di mondo, accompagnata da un trolley delle dimensioni di un piccolo monolocale, non stavo davvero viaggiando.

E non stavo tantomeno viaggiando quando raggiungevo il mio fidanzato nella casa a Pantelleria dei suoi genitori, fingendomi anno dopo anno perfettamente a mio agio su barche che in cuor mio ero certa si sarebbero ribaltate senza preavviso, lasciandomi in preda ai flutti a galleggiare inerme verso la Tunisia.

Ho poi fatto un paio di viaggi che potremmo definire viaggi, ma che in realtà non possiamo conteggiare in quanto offerti e organizzati dalla mia famiglia (sappiamo tutti che in California e in Giappone ci si va solo coi soldi dei genitori). E poi nel 2019, a sorpresa, decido di fare un viaggio vero, forse il più viaggio dei viaggi considerati viaggi. Riempio uno zaino da 70 litri con 70 litri di Amuchina e parto per l’India.

Ritrovare me stessa

Ora, non sono il tipo di persona che va in India a trovare sé stessa. Forse non sono neanche il tipo di persona che va in India. Però in quelle tre settimane costellate di merde di animali assortiti e caccole di naso attaccate nei posti più inaspettati (nonché effettivamente mediocri), mi sono scoperta meno principessa del primo mondo di quanto pensassi e mi sono detta che, dopotutto, viaggiare non è niente male.

In quanto a trovare me stessa confermo di non aver avuto grandi rivelazioni. Ho pur sempre passato una decina di estati a Focene, e niente ti forma quanto la noia. A sette anni avevo già trovato me stessa e già non mi sopportavo più.

Quindi insomma, nel 2019 scopro che posso andare nel mondo, indossare le Birkenstock senza offendere nessuno, e proprio sullo slancio di questa scoperta comincio a programmare le mie estati da qui a per sempre affidandomi alla bibbia dei paranoici, il sito di Viaggiare Sicuri. Etiopia! Brasile! Indonesia! Kamchatka! Sono pronta a tutto, voglio andare ovunque.

Il coprifuoco

Il mio entusiasmo viene presto smorzato da una certa pandemia, e mentre ad agosto 2020 azzanno il milionesimo fiore di zucca fritto ripieno di ricotta in un ristorante della costiera amalfitana, mi scordo di ogni cosa e penso vabbuò, anche qui non si sta mica male. In Etiopia di sicuro non sanno friggere così bene.

La seconda estate segnata dal Covid mi convinco che, per quanto piacevoli, le vacanze in Italia a imbottirmi di carboidrati potrò farle anche a 50 anni, quando mi sarò definitivamente stufata di prendere aerei, essere magra, e di vivere in generale.

Quindi io e il fidanzato, in un momento di raro e immotivato ottimismo, decidiamo di prenotare una settimana in Portogallo e una nei Paesi Baschi, pregustando il sapore dei carboidrati esotici che troveremo fuori dai nostri confini.

La nostra arroganza, questa smania di andarsene in giro mentre il virus imperversa in forme sempre più evolute, viene presto punita. Il Portogallo ripristina il coprifuoco e la nostra settimana di pastel de nata si trasforma in una settimana di arrosticini in Abruzzo.

Il furto delle valigie

I Paesi Baschi invece ci accolgono. Mangiamo le ostriche, beviamo il vino. Poi a tre giorni dal rientro, sulla strada per Bilbao – l’aria ormai impregnata dell’ammorbidente da ricchi che mi sta aspettando a casa mia – decidiamo di fare una tappa a Zumaia, una cittadina senza particolari motivi di interesse se non per questa celebre scogliera dove hanno girato qualcosa tipo il Trono di Spade o altre cose di draghi.

Ora, tra le caratteristiche che mi rendono una viaggiatrice inadeguata avrei dovuto menzionare la mia malcelata avversità per la natura. Poche cose mi annoiano come una passeggiata tra le frasche o una vista panoramica su una distesa d’acqua.

Se nel quadro di Friedrich ci fossi stata io avrei dato le spalle al mare di nebbia, china sull’iPhone in cerca di un ristorante o di un museo.

Deve esserci qualcosa di davvero eccezionale per risvegliare il mio interesse nella natura: un’eruzione vulcanica, una bestia che si pensava estinta, una pianta che sa di Nutella, cose così.

Questo per dire che quando ci fermiamo a Zumaia a me della scogliera non frega niente e per le mie lamentele sarò poco dopo accusata di stregoneria. Mentre con diversi gradi di entusiasmo stiamo rimirando questa imprescindibile scogliera, infatti, qualcuno sta rubando le nostre valigie dalla macchina.

Ce ne accorgiamo dopo essere ripartiti, quando una ciabatta fuori posto in un portabibita ci mette in allarme. In una piazzola di servizio apriamo il bagagliaio con circospezione ed eccolo lì: il vuoto al posto delle nostre valigie. Io piango, qualcuno bestemmia, il piemontese del gruppo rilascia trent’anni di emozioni represse prendendo a calci un cassonetto. Poi ripartiamo per Bilbao, dove passeremo la prima sera a ripristinare almeno il settore mutande da Primark.

In Giappone

Questo è il secondo momento in cui penso che abbiamo peccato di arroganza, che il Covid ci sta dicendo di starcene a casa nostra e noi faremmo meglio ad ascoltarlo. Ma ormai ci siamo infilati in questa spirale discendente, e nell’estate del 2022 il Covid sembra un ricordo di mille vite fa.

Così la spirale ci porta a Cuba, che il Covid invece se lo ricorda molto bene: la vacanza infatti diventa una specie di missione umanitaria, in un paese devastato dalla povertà.

Si fatica a trovare l’acqua in bottiglia, in tutte le città ci sono blackout programmati di varie ore al giorno, e mentre siamo lì un fulmine colpisce un deposito di carburante della centrale elettrica di Matanzas, che va a fuoco e in modo molto didascalico ci ricorda che abbiamo rotto il cazzo con questi viaggi.

Travolti dal senso di colpa occidentale e ubriachi di canchànchara, che a questo punto abbiamo giocoforza sostituito all’acqua, passiamo tre settimane a regalare i nostri vestiti a chiunque ce li chieda e infine torniamo in Italia con gli zaini vuoti e il sospetto di aver sbagliato qualcosa anche stavolta.

Eppure non imparo mai: mentre leggete queste righe dovrei essere in Giappone, stavolta purtroppo con i miei soldi. Come al solito non tornerò una persona migliore, non mi sarò arricchita spiritualmente.

Sarò in compenso molto più povera in senso letterale, ma avrò conservato la mia reputazione di persona avventurosa, mentre dentro di me Lucio Battisti continuerà a cantare: No, viaggiare.

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