Clotilde e Igor hanno appena chiuso la loro relazione, quando hanno un grave incidente d’auto: lui entra in coma, lei s’innamora della ragazza responsabile dell’incidente, Angelica, con cui instaura una relazione. Igor, però, si risveglia e l’esistenza dei tre, già radicalmente cambiata, deve trovare dei nuovi binari su cui procedere – ammesso che esistano.

Viola Di Grado, chi è la Marabbecca, titolo del suo nuovo romanzo per La nave di Teseo?
È un personaggio del folklore siciliano, personificazione dell’oscurità: è buio. È stato inventato dalle madri contadine, lo usavano per metter paura ai bimbi, così che non si sporgessero sui pozzi. Dicevano loro che se l’avessero fatto la Marabbecca li avrebbe catturati e portati con sé, nelle tenebre, trasformandoli, pure loro, in buio.

Come mai proprio questo personaggio?
A interessarmi è il fatto che la Marabbecca non abbia una forma fisica definita e che sia la personificazione di qualcosa per sua stessa natura inafferrabile: le tenebre. Il mio romanzo è sul male, e il male lo associamo spesso al buio.

Chi opera il male nel suo romanzo?
Tutti: sono forme di male diverse. L’unico a non farlo è il padre di Clotilde.

Ma lui è morto.
Appunto: i morti sono perfetti.

Torniamo al male.
Anzitutto a operarlo è Igor: un uomo violento fisicamente e psicologicamente. Ma anche Clotilde e Angelica hanno le loro colpe. Con questo romanzo difatti volevo indagare il male, come dicevo, e non sempre siamo coscienti d’essere i cattivi nella storia degli altri. A volte facciamo del male a chi abbiamo vicino senza rendercene conto - perché ci hanno fatto soffrire, perché non sappiamo gestire le nostre stesse fragilità, perché abbiamo paura.

Di Grado, lei è nata e cresciuta a Catania, ma si è trasferita più volte, ha viaggiato, e oggi vive a Londra. Il rapporto con la Sicilia?
Ho lasciato Catania a diciassette anni, ho vissuto in tanti posti diversi tra loro, e sono riuscita a riappropriamene - di Catania, intendo; della Sicilia - solo una volta compiuti i trent’anni. Prima la ripudiavo, quella terra mi ha fatta soffrire troppo, non riuscivo più a sopportare tutta quella cattiveria, la brutalità, quindi ho dovuto cancellarla, eliminarla, per poi riprenderla più di tredici anni dopo. Oggi il rapporto che ho con la Sicilia è solo da scrittrice.

Un luogo a cui è particolarmente legata? Intendo della Sicilia.
L’Etna. Amo l’Etna. La mia cameretta dell’infanzia, nella casa della famiglia, aveva un balconcino che dava proprio sull’Etna, si vedeva sia la montagna sia il mare, e me ne sono innamorata giorno dopo giorno, da bambina. Quando ci trasferimmo in quell’appartamento, mia madre il primissimo giorno mi chiese di scegliere la mia stanza e io mi fiondai in quella giusto perché si scorgevano il Mediterraneo e l’Etna: in tutta franchezza, l’idea di vedere ogni giorno altre persone, sotto la mia finestra, era raccapricciante.

Di Clotilde che mi dice?
Il loro è un rapporto diverso. Clotilde è una di quelle persone - e io ne conosco moltissime - che sono fuggite dalla Sicilia subito dopo l’adolescenza, proprio come me, ma che poi, al contrario, sono dovute tornare e lì sono rimaste come intrappolate, in gabbia. Vede, in Sicilia nascono tre tipi di persone: quelle ben felici di rimanere, quelle che vanno via per non tornare mai più, quelle che, a un certo punto, sono costrette a tornare dopo aver vissuto fuori per molti anni. Ecco, Clotilde appartiene a quest’ultima categoria e abita la Sicilia come fosse una gabbia.

A proposito di gabbie: nel suo romanzo sono dappertutto: dalla copertina alla clinica in cui Clotilde passa delle settimane, dalla voliera di Angelica alla museruola di Igor.
Il concetto di libertà è molto complesso, sfaccettato, secondo me, e desideravo indagarlo. Esser liberi, naturalmente, è una brama di tutti - ognuno di noi non vuol altro che esser libero -, ma ci capita, più frequentemente di quanto siamo portati a pensare, di scambiare la gabbia in cui ci troviamo per libertà. A conti fatti, delle gabbie tanti di noi hanno bisogno.

Perché?
Servono a definirci, contenerci, e anche se sono piccole e fastidiose ci aiutano a tenere assieme i nostri pezzi. Qualcosa di simile accade pure nelle relazioni violente: nei rapporti tossici, che troppo spesso culminano in femminicidi, le donne credono di meritarla, la gabbia in cui si trovano.

Clotilde è così.
Esatto. Lei riesce a liberarsi, a uscire dalla relazione violenta con Igor soltanto dopo tre anni.

Di Grado, le sue gabbie?
Facile: la mia immaginazione. Sembra un paradosso - in fondo, la fantasia è sinonimo di libertà -, ma per me è una gabbia. Non in senso patologico, non intendo questo. La mia gabbia è la mia testa.

A proposito di relazioni, sentimenti e di gabbie. In Marabbecca scrive devi strapparti il cuore quando ami la persona sbagliata. Cosa succede, quando ci innamoriamo della “persona sbagliata”, perché capita?
Perché cerchiamo la sola forma di amore che siamo capaci di riconoscere, ed è quella che abbiamo visto, imparato da bambini. Se da piccolo sei stato amato o sei stato testimone di un certo tipo di amore, sarai per sempre - magari proprio per sempre no, non è niente d’irreversibile - convinto che l’amore sia solo e soltanto quella cosa lì.

Louise Glück ha scritto che “guardiamo il mondo una volta, da piccoli. Il resto è memoria”.
È così.

A lei è successo d’innamorarsi della persona sbagliata?
A chi non è successo?

È riuscita a tirarsi fuori dalla situazione?
Sì, ma, come Clotilde, ci ho messo parecchio tempo.

Nei suoi romanzi c’è, spesso, una forma di abnegazione, legata all’amore.
Perché credo sia presente in molte relazioni, pure quando chi è coinvolto non se ne rende conto.

L’ha mai sperimentata, questa abnegazione?
Come prima: a chi non è successo?

Scrive che il dolore può sostentare la vita come la luce e il latte delle madri.
È la vita nell’oscurità, la creatività che nasce dal dolore.

Crede che la creatività venga fuori dalla sofferenza?
Credo che dentro chi sperimenta un dolore molto forte si crei come una specie di percorso privilegiato verso il subconscio.

A chi gli chiedeva perché scrivesse solo cose tristi, Kafka disse che fosse stato felice sarebbe andato al parco a giocare - una cosa del genere, ecco.
Tant’è che delle persone che non hanno sofferto non mi fido: si conosco meno di quanto dovrebbero, evitano il dolore - per cui non sono tanto capaci di accogliere l’altro e le sue pene.

Torniamo a Clotilde. Spesso mente - e persino ai lettori. Perché?
Due ragioni: una autoriale, l’altra personale. La prima ha a che vedere con la voglia di sperimentare una narratrice inaffidabile, mi affascinava tanto questa sfida. La seconda con il fatto, banale però mai immediato a tutti, che la verità ha mille gradazioni e non può esser vista in modo dualistico: bene e male - lì, nel mezzo, accadono le cose più interessanti.

Realtà di tutti e verità di ognuno.
Qualcosa del genere.

I suoi protagonisti, in Marabbecca vivono una sorta di presente continuo, una gabbia anche questa. Che ne è stato del futuro?
Non c’è - in siciliano non esiste neanche il tempo verbale.

Per lei vale lo stesso?
Ho sempre vissuto cercando di trovare il valore del presente o al massimo del futuro prossimo: non riesco a proiettarmi troppo in avanti.

E le sta bene?
Sono fatta così, non conosco altri modi di abitare il mondo.

L’ultima domanda, che faccio a tutti, allora non le piacerà.
Provi.

Immagini di avere ottant’anni, che sia domenica mattina. Dov’è, con chi è, che fa?
Mi piace, invece! È divertente. Sono sulla spiaggia di Reynisfjara, in Islanda. È un posto pericoloso, c’è morta molta gente, per via delle onde, improvvise, alte e violente – nessuno pensa di poter morire in modo tanto stupido, e quindi molti ci vanno, e in barba ai cartelli; tant’è che, di recente, il comune ha affisso le foto delle persone che annegavano.

Davvero?
I turisti sono notoriamente stupidi.

Dunque si vede lì?
Sì, concentrata a studiare un animaletto strano che ho appena incontrato.

Speriamo non arrivino onde improvvise.
Sarebbe un buon modo di morire, in realtà. Sono nata al mare, e torno al mare.

© Riproduzione riservata