Due innamorati ordinano al ristorante le orecchiette con le cime di rapa – lui è pugliese, lei felice di assecondarlo nelle sue preferenze gastronomiche; lei dice “buonissime”, lui la guarda come per promettere dopo ti sistemo io. Ma le acciughe sfortunatamente sono andate a male, tornati in albergo i due innamorati sono presi da terribili strizzoni di pancia con diarrea, tutto il romanticismo è rovinato da borborigmi e corse sul water. Titolo del racconto, Cime tempestose.

Augusto e Vincenzo hanno riso di cuore, l’invenzione è stata di Augusto e Vincenzo l’ha condivisa come un bambino; si è addirittura appoggiato al muro per ridere meglio. Il loro unico, genuino momento di allegria in tutto il weekend. Sempre più brevi, i loro fine settimana: prima cominciavano il sabato mattina presto (talvolta il venerdì sera) e finivano la domenica dopocena, poi il giovane (cioè Vincenzo) ha cominciato ad arrivare il sabato verso l’ora di pranzo perché a Mantova, dove abita, aveva commissioni che poteva sbrigare solo quella mattina; poi l’autostrada troppo trafficata l’ha spinto a partire domenica nell’ora morta, verso le tre e mezza; ora sostiene che non può nemmeno stendersi sul letto dopo mangiato perché la posizione orizzontale gli provoca il riflusso gastro-esofageo, quindi riparte alle due. Oggi il cielo è annuvolato ma Augusto non vuole buttarla sul simbolico, qui solo l’umanità è in causa – stiamo insieme da dieci anni, da sette siamo uniti civilmente; devo decifrare indizi e prossemica, è una questione tra individui della specie homo sapiens, solo strumenti umani niente cielo.

«Angelo ci azzeccava sempre, le posate dicono molto di un ristorante»; questo perché in pizzeria le posate erano di rame lucido, di quelle finto-chic col manico non si sa perché perpendicolare ai rebbi o alla lama. Infatti la pizza faceva schifo. Vincenzo parla parecchio di Angelo, il suo ex, più di quanto non facesse anni prima; probabilmente perché è morto da poco e lui ci ripensa con un po’ di rimpianto (o di rimorso, chissà). Non è facile capire cosa gli passa per la testa e nell’anima, Vincenzo è di poche parole e si rifugia nella concretezza di chi preferisce spostare cose di qua e di là.

Oggi ha fatto il cambio di stagione negli armadi, ieri ha accompagnato Augusto a comprarsi le scarpe nuove. (Il cielo sempre nuvoloso, ma non è questo il punto). I baci quasi sempre a stampo, ormai, bacetti di rassicurazione; ma non si tira indietro se Augusto reclama un po’ di umidità. Gli occhi gli si addolciscono, è sincero, «ti voglio bene». Poi uscendo dal bagno la smorfia dolente, d’improvviso sfuggente come un roditore che non sappia dove ripararsi, con la voce delle occasioni gravi: «Ho cagato sangue un’altra volta, un bel po’, c’era la tazza rossa».

La causa

Può venire dallo stomaco ma la gastroscopia l’ha escluso, nessuna ulcerazione è solo infiammato; ovviamente serve una colonscopia, prenotiamola subito ma vedrai non è niente – il sangue pericoloso nelle feci è quello occulto, non quello che arrossa la tazza. La visita al Musocco non è stata una bella idea, anche se ad Augusto serviva per il suo prossimo libro («per te la scrittura è più importante di tutto»), «proprio in un cimitero dovevo portarlo oggi?». Augusto ha paura che quando sarà ancora meno autosufficiente di adesso ci sarà soltanto una suora peruviana ad aiutarlo. Ieri sera, quasi per caso, si sono rivisti l’ultima parte di Querelle de Brest di Fassbinder: non si ricordavano quanto spesso (e con quanta crudezza) vi si pronunciasse il verbo «inculare», la cosa li ha imbarazzati come il rimprovero di una pienezza lontana. Le erezioni perdute, proprio da Vincenzo che è sempre stato il campione dei corpi cavernosi. Augusto è indaffarato nella preparazione del pollo al curry, Vincenzo osserva che quella padella è troppo piccola, «non è piccola topì, poi i pezzetti si restringono», «tutto quello che dico secondo te è sbagliato» – ci siamo dimenticati il pane, non serve avevamo detto il riso basmati, «allora cuocilo ‘sto cazzo di riso». Che ti ho fatto santo dio, perché mi tratti così? Non l’ho detto contro di te, scusa. Poi sono andati a letto presto, quasi scappando dal film.

Il pensiero di Augusto va avanti e indietro, sarebbe bello se quando cadono le maschere sotto ci fosse un volto; Vincenzo si è trincerato in una delle sue infinite sessioni di cesso; se soffre di emorroidi non vedo perché un po’ di sangue debba spaventarci. Se lui sta male sto male anch’io, Augusto spera che Vincenzo pensi e provi la stessa cosa; o forse no, forse anzi la mia scomparsa gli farebbe comodo dal punto di vista economico. Già, la morte dell’ex gli ha giovato. Ma è tutt’altro che uno sfruttatore di anziani, è un uomo onesto e adorabile, quando ci stringiamo le mani la comunione c’è.

Una volta

Esce dal bagno, i segni marcati sotto le natiche (per tutto il tempo che è stato seduto sul «trono», come lo chiama lui) lo rendono ancora meno desiderabile. Una volta le cose che li rendevano felici erano tre: i viaggi, il sesso e il buon cibo. Il Covid ha reso per molto tempo complicati i viaggi lunghi, Vincenzo deve stare attento a non esagerare con il piccante e Augusto non ha più gli enzimi per digerire il vino schietto; l’ultimo sesso (che pareva una macelleria) l’hanno consumato due mesi fa nel sud del Marocco¹ – al margine del deserto pioveva ma ripeto niente metafore please. Il diritto alla gioia è un falso storico. I libri li hanno sempre separati; un tasto da non toccare è quello culturale, sorgente scivolosa di entusiasmi effimeri, insoddisfazioni sepolte, fallimenti a stento sublimati². Basterebbe un po’ di semplicità, non c’è bisogno del cancro.

Ieri notte, forse per suggestione di Querelle o per contrasto, Augusto ha fatto un sogno erotico di quelli così semplici che un analista si vergognerebbe: un pesista sposato, appena sconfitto in una gara, allargava le gambe rilassandosi seduto – Augusto gliele accarezzava godendosi il morbido della tuta, poi azzardava un bacio timidissimo su un ginocchio e il pesista non si ritraeva anzi, lo tirava su fino all’altezza dei pettorali e lo baciava a sua volta, solo gettando un’occhiata per accertarsi che la moglie non fosse nei paraggi. Sollevava il corpo obeso di Augusto come se fosse un insetto secco. Augusto non distingueva gli ascensori dai corridoi, o forse dalle bare. Orizzonti intempestivi, il trionfo del tempo sul desiderio. Vincenzo sta lavando i piatti, il curry è meglio toglierlo subito altrimenti si incrosta – è lui quello più vicino alla verità ?

Sono le due meno un quarto, Augusto si è steso sul letto per la futura pennica ma già sa che Vincenzo si presenterà vestito di tutto punto, col gilé a righe e la borsa da portare a Mantova, dicendo «è meglio che vado, ti chiamo appena arrivo».

Preoccupato per la salute, o desideroso di essere là abbastanza presto la domenica per poter fornicare con qualcuno che magari soltanto la domenica pomeriggio è libero? Un bravo marito per esempio, che le altre sere dovrebbe giustificarsi rischiosamente mentre la domenica la famiglia è in montagna dai suoceri e lui resta a casa trafficando in giardino e protestando rottura di palle? Che cosa preferirei, si chiede Augusto finalmente ingenuo, se un dio sconosciuto mi concedesse la possibilità di scegliere? Su un piatto della bilancia c’è Vincenzo che non se la sente oggi di fare sesso con me perché è spaventato dall’idea del tumore; sull’altro piatto c’è lui che si è inventato la storia del sangue nelle feci per avere la scusa di non fare sesso e così presentarsi più fresco all’appuntamento. Sceglierei la seconda opzione, certo. È segno che gli voglio bene davvero, e quindi desidero il suo bene, o significa che da adultero mi peserebbe comunque meno che da malato? Certuni la chiamano viltà, altri liberazione.

Vincenzo si è chinato sul letto e stampa il solito bacetto, Augusto biascica un «buon viaggio amore» ma dicendolo si accorge che dalle labbra gli esce qualcosa come «buon viaggio ahmmrm» – non si è mai sentito più vicino all’amore di così. Dopo tre ore Vincenzo chiama lamentandosi che là piove, quindi non potrà potare gli aceri come si era proposto. Crogiolarsi nell’astratto non è il suo sport (“scheduliamolo” è sempre stato il refrain per qualunque progetto e perfino per l’intimità). Augusto controlla su 3Bmeteo Mantova, alle ore 18 riporta poco nuvoloso, venti a 8 chilometri orari, umidità 94 per cento, precipitazioni assenti. «Se sono geloso, c’è ancora speranza». Ha ragione Vincenzo, le domande che non servono bisogna imparare a censurarle; allarme luogo comune, ci vogliamo bene solo da lontano. Il passato non basta a riempire il presente. La verità su se stessi si dice solo stando nudi davanti allo specchio; Augusto lo fa e si fa schifo. Non perché è grasso, ci sono tanti modi di essere grassi – ma perché nel suo grasso sono stratificate tutte le sue viltà, la disciplina che non ha saputo imporsi, le illusioni a cui si è abbandonato, le indulgenze ipocrite e le violenze rimosse. Il grasso è la peggiore delle uniformi perché è quella che si è cucito addosso da solo. Il porno accogliente e consolatore lo sta aspettando nel computer coi suoi schiavi digitali. Novak Djokovic intanto alza la coppa al cielo al Roland Garros, ha vinto oggi il suo ventitreesimo slam (record nel tennis di tutti i tempi). «Ancora je l’ammolla». Weekend istruttivo, ancora e sempre competizione; sì, è proprio una questione tra uomini. Alle dieci di sera Augusto invia un ultimo, inerme WhatsApp: «Buona notte topì, e buona settimana».

 ¹A Erfoud sgozzavano gli agnelli nel fosso dietro il ristorante, mentre loro mangiavano le costine di quelli sgozzati il giorno prima.

²I conati di pittura astratta, quell’unica piccola mostra a Goito e la proprietaria che gli disse, tra comprensiva e canzonatoria, «ah però, gli artisti!» – poi nessun seguito perché si sa, per emergere servono gli appoggi.

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