L’altro giorno, in una chiesa milanese, assistevo alla messa in suffragio per un’amica da poco deceduta; il sacerdote ci assicurava che la nostra amica in quel momento stava vedendo Dio faccia a faccia, e che ci avrebbe aspettato di là. Insieme a me altri, commossi tra i banchi di fronte all’altare, non credevano a quelle parole: ma l’affetto per l’amica scomparsa non ne era intaccato e quelle parole non credute mantenevano una buona dose del loro valore consolatorio.

Una messa irreligiosa ma funzionante, nonostante la contraddizione in termini, o ossimoro che dir si voglia. Tornando a casa ho pensato in quante cose e a quanti livelli la società in cui viviamo qui e ora si basi su un «ossimoro permanente» (come scriveva Montale criticando Pasolini e le sue contraddizioni, ma ammettendo di affidarsi anch’egli a un ossimoro, la «fuga immobile» dall’indecenza della società contemporanea).

Come chiamare se non ottimismo impaurito quello che ci induce ad affermare che ogni crisi è un’opportunità, e che questa pandemia di isolamento e nevrosi ci renderà senza dubbio migliori, non solo risanati ma ristrutturati? E come non definire logorrea reticente questa enfasi comunicativa che ci inonda di opinioni fino a fare dell’eccesso di informazione l’equivalente del rumore? Viviamo in un periodo in cui la rivoluzione sessuale ha reso reazionario il nominare peni e vagine, e in cui i sostenitori della libera identità di genere giudicano una statua con gli stessi criteri con cui avrebbe potuto giudicarla mia nonna.

Il clima rotola verso fenomeni meteo sempre più estremi mentre qualunque istituzione si dichiara compattamente green (e ai giovani che protestano risponde che le loro sono «provocazioni condivisibili»).

Non ci stupisce più che a sostenere Russia e Cina siano le destre, né che Salvini accusi il Pd di omofobia; nel lessico della polemica è ormai comune lo stereotipo di una destra democratica, baluardo di libertà, e di una sinistra conservatrice (salvo cambiare idea alle prima circoscritta tornata elettorale, come fa il merlo per poca bonaccia).

Il caso Morisi

Ogni affermazione negherebbe la successiva, se si mettessero seriamente a confronto. Il caso sfortunato di Luca Morisi può apparire esemplare: che cosa spinge un ragazzo non convenzionale nell’intelligenza e nei costumi privati a costruire l’immagine pubblica di un Capitano tutto tradizione, odio della droga e amore per la famiglia? Col risultato che poi, quando scegli gli escort sbagliati (e rumeni per di più), ti devi presentare col capo coperto di cenere invocando «fragilità esistenziali»?

Ipocrisia, falsa coscienza, sapere tecnologico applicato senza riferimento all’etica? Forse, facendo un passo avanti, rimozione psicologica: quel che sei è così difficile da ammettere che semplicemente lo cancelli, o lo reprimi, a rischio che poi il represso prema contro le pareti del tuo io fino a esplodere. Più comprimi l’infelicità, più monta l’ossessione. Che sia proprio la rimozione una delle chiavi del nostro tempo?

I social, ormai è chiaro, favoriscono la falsa coscienza: rendono sempre più sottile il diaframma tra ciò in cui si crede di credere e ciò che si è. Il falso diventa vero se può procurare più like. A ciò si aggiunga un generale ignorante disprezzo per qualunque criterio di falsificabilità scientifica; anche l’idea che la terra è piatta, o che il Covid si può curare con un prodotto veterinario per uso equino, viene ascritta a un generale elogio del dubbio come fabbrica del consenso.

La matematica e la statistica sono sospettate di complottismo, il parere della portinaia e quello di un filosofo che sulla questione della libertà ha speso una vita di studi vengono proditoriamente parificati. Riflessioni fondamentali come il rapporto tra legge dello stato e legge morale vengono spicciolate in uno sbrigativo essere pro o contro; ognuno crede di poter agire da giudice di quel che accade nel mondo come se fosse opinionista in un qualunque reality (questa oscena parodia della realtà); se la passione è forte, e non importa se durerà solo cinque minuti, il gioco delicatissimo tra attenuanti e aggravanti in un processo penale viene saltato a pié pari, e tanto peggio per le regole faticose del diritto.

Concilianti su tutto

Un tweet o una diretta Instagram si possono sempre rinnegare il giorno dopo, dipenderà dal clamore prevalente. La “fluidità” è la musa ispiratrice: partita come una difesa delle minoranze, è stata inglobata e resa irriconoscibile da un più vasto e micidiale concetto di onnipotenza immaginaria – io sono fluido perché di volta in volta posso essere tutto ciò che desidero, basta la volontà, più una cosa è impossibile più è alla mia portata (ma intanto i giovani gridano “revolution” in inglese perché in italiano fa troppa impressione).

La retorica esalta i ponti e demonizza i muri, le distinzioni su cui si è costruita una cultura plurisecolare non valgono più: non ci sono più né vecchi né giovani, né belli né brutti, né maschi né femmine, né normodotati né disabili, né ricchi né poveri (ma su questo punto la fluidità sembra subire un inciampo).

Il “non binario” confonde accoglienza con vaghezza, la “intersezionalità” funziona come parola magica che pretende di sanare contraddizioni insanabili.

Più diventa difficile (per esempio nella vita quotidiana di un gay) entrare in contatto con una classe sociale diversa dalla propria, più si impone l’esaltazione neoromantica dell’amore che vince su tutto. In generale, l’estraneità dell’altro sviluppa rifiuto o amore preconcetti in ugual misura.

Vien voglia, davvero, di dedicarsi a una lode delle barriere: non per un gusto da sofisti e bastian contrari, ma perché su qualcosa bisognerà pur smetterla di essere concilianti. Ci dovranno pur essere delle rigidità, delle regole – se non altro perché senza regole non matura la forza per abbatterle. Io nel ’68 avevo ventun anni, e l’autorità simil-paterna dei baroni universitari era abbastanza severa per poter esser presa a pernacchie; come si può fare adesso, se i vecchi si proclamano discepoli dei giovani, se l’autorità per esser forte deve nascondersi a sé stessa?

Nel Duomo di Milano, dove un tempo c’era un confessionale, c’è un parallelepipedo di plexiglas con la scritta «spiritual counseling»: che anche i comandamenti siano diventati fluidi? Possibile che non si possano più fissare dei limiti oltre i quali non si va, delle opposizioni irrinunciabili? Delle cose che non si possono realizzare, neppure con le migliori intenzioni?

A forza di abbattere pareti divisorie, l’open space rischia di trasformarsi in una landa insensata. E non riconoscere i limiti non è forse una reazione spropositata alla sensazione rimossa che contiamo sempre meno, che i nostri margini di scelta si stanno irrimediabilmente restringendo? Di tutto si può parlare, tranne di ciò in cui ci stiamo trasformando; le mutazioni culturali profonde non hanno ancora trovato la loro lingua – all’ingresso di ogni scuola dovrebbero mettere un cartello come quelli che pare ci siano in alcuni campi profughi africani (per scoraggiare i viaggi): «La realtà è diversa».

Morbida durezza, sovranismo europeista, utile bla bla, imposizione dolce (dei vaccini): l’ossimoro trionfa, ma l’ossimoro sciolto nelle sue componenti dà per somma zero – non sarà forse questa l’ultima chiave, l’estrema rimozione? Se “innovazione” è l’attuale mantra per esorcizzare il rotolare senza controllo dell’economia e dei costumi, non dimentichiamo che il sogno più segreto della tecnologia è nientemeno che abolire la morte (quello sì, un limite che sembra invalicabile) o “aumentare l’umano”, cioè di fatto abolire la distinzione tra umano e artificiale (da cui l’esaltazione incongrua di un “neo-umanesimo” che non si qualifica in alcun modo).

Se la rimozione è una umana difesa contro ciò che fa paura, la paura ultima è proprio quella del Niente; è ciò che molti giovani si figurano per il futuro, preferendo chiudersi in un universo virtuale, ed è sul Niente (una volta che sarà finita la circolazione extracorporea del governo Draghi) che si giocherà la grande sfida della politica. Le parole del sacerdote, l’altro giorno, cercavano di lenire con un rimedio millenario una ferita che oggi si percepisce con particolare urgenza; per questo, nonostante tutto, mi sono fatto il segno della croce.

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