Il discorso pubblico è oggi permeato dall’immagine positiva della guerra. Per la prima volta dalla fine del conflitto mondiale il riferimento dominante non è quello della pace, della nonviolenza, del dialogo, della coesistenza pacifica.

Hanno perso di valore questi concetti, sommersi dalla fiera marcia dei sostenitori dell’unico linguaggio possibile, quello delle armi. Vi sono state, invece, nel nostro paese marce di tutt’altro segno che hanno marcato il terreno con una visione alternativa a quella degli eserciti e della violenza organizzata.

Non ci si riferisce qui al movimento dei Partigiani della pace, animato dalle sinistre e in primis dal Pci nel dopoguerra, e derubricabile a mero strumento della propaganda sovietica. Le marce antimilitariste e pacifiste hanno tutta un’altra origine. Quella più famosa, la Perugia-Assisi vede la congiunzione tra ispirazioni laiche-azioniste animate in primis da Aldo Capitini, e comunità di base cattoliche e cristiane.

Nel mondo della cultura liberal-socialista matura la convinzione che, come l’antifascismo dei fratelli Rosselli e del Non mollare non era una fumisteria da intellettuali, altrettanto, nel pieno della Guerra fredda, si doveva testimoniare una visione alternativa al militarismo e alla sua mitologia. Sono comunque molte le fonti di questo impegno: convinzioni federaliste, per cui il nazionalismo e il suo strumento principe, l’esercito, deve essere superato con l’eliminazione delle barriere politico-culturali tra i popoli, suggestioni gandhiane, pulsioni alla fratellanza universale di ispirazione religiosa, e altre ancora.

Dal 1961 la marcia Perugia Assisi diventa un appuntamento centrale del movimento nonviolento. Il suo appello universalistico e valoriale riflette l’aspirazione ad un mondo diverso ma si tiene un passo indietro rispetto alla politica. Ha un taglio soprattutto di testimonianza sulla scia dell’azione esemplare dei primi obiettori di coscienza, a incominciare da Pietro Pinna, organizzatore della prima marcia e fondatore con Capitini del Movimento Nonviolento.

Nella pattumiera della storia

Solo la piccola componente dei radicali di Marco Pannella adotta la nonviolenza come un progetto politico e la concretizza sia con la richiesta di una legge per l’obiezione di coscienza, sia con le marce antimilitariste, “contro tutti gli eserciti”, come risuona nei suoi slogan, che si snodano lungo un percorso che tocca gli insediamenti militari più importanti, da Trieste ad Aviano.

Gli arresti per chi semplicemente propaganda l’obiezione di coscienza come per i fratelli Strik Lievers nel 1967 o per chi rifiuta di indossare la divisa sull’esempio di Pinna come Alberto Gardin e Roberto Cicciomessere, incarcerati nel 1972, sollecita il parlamento italiano a promulgare finalmente una legge che riconosca anche in Italia il diritto all’obiezione di coscienza.

Tuttavia la nonviolenza con tutti suoi corollari, dalla disubbidienza civile al digiuno, non trova un terreno fertile per attecchire perché la violenza politica costituisce il basso continuo della lotta politica nazionale e, in particolare, nei primi anni Settanta è in controtendenza a fronte del turgore rivoluzionario dei movimenti studenteschi.

Ma, alla fine, abbatte ogni resistenza, anche nelle frange più estreme di destra e di sinistra. Poi, il crollo del Muro di Berlino e del sistema imperiale sovietico illudono che il mondo sia entrato nell’Era dell’Aquario, senza conflitti insanabili. Me il risveglio è immediato: dalla ex Jugoslavia all’Afghanistan, dalla Cecenia all’Iraq tornano le armi. Eppure, il no guerra è diventato un sentimento corale. Le manifestazioni per la pace del 2002-2003 hanno una dimensione globale e in Italia sono tra le più partecipate di sempre. Le bandiere arcobaleno pendono dai balconi e dalle finestre.

Esprimono un sentimento popolare di lontananza dai miti bellici; lo manifestano anche le norme approvate in quegli anni contro la produzione di ordigni come le mine antiuomo e la restrizione al commercio di alcuni sistemi d’arma e lo testimoniano i dibattiti parlamentari che hanno sempre raccolto un consenso quasi unanime sull’interpretazione pacificatrice delle nostre missioni militari all’estero.

Senza dimenticare l’opera di una organizzazione non governativa come la Comunità di Sant’Egidio promotrice della risoluzione di alcuni conflitti sanguinosi in Africa. Questa lunga storia, che qui non poteva che essere iper-sintetizzata con mille omissioni, sembra ora gettata nella pattumiera dello storia, per usare la celebre espressione del leader cecoslovacco della primavera praghese del 1968, Alexander Dubcek, quando venne schiacciato il suo tentativo liberalizzante.

La guerra portata dalla Russia in Ucraina porta a delegittimare chi indica come prima opzione il cessate il fuoco e la ricerca di un tavolo della pace. Prima devono vincere le armi. Poi si imporranno le condizioni di pace allo sconfitto. Esattamente come a Versailles nel 1918. Con questa logica si ricade in una trappola perché si pongono le condizioni per il contrario del sogno kantiano: una guerra perpetua.

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