«Ho passato il periodo del Covid a casa da solo. Ho imparato a cucinare, lavare i vestiti, perfino a fare le pulizie. Sfido chiunque a non diventare uomo così». Il rapper Emis Killa, all’anagrafe Emiliano Giambelli, 33 anni, lo dice durante la conferenza stampa del suo album appena uscito, Effetto notte. Una frase malinconica, che mi ha fatto distogliere lo sguardo dal cellulare e venire voglia di approfondire. La malinconia di fondo non lo lascia mai, e di certo quel ragazzo che cantava Maracanã, la canzone diventata sigla dei Mondiali di calcio in Brasile nel 2014, non esiste più.

«Le hit estive non fanno per me, non aspettatevele» dice. Ha lavorato quasi due anni senza sosta a questo primo disco con la Sony Music, lo ha chiamato persino col nome di un film di Truffaut. «Ho voluto che piacesse soprattutto a me e ai fan che mi supportano. Non è semplice ma è ricco di contenuto», dice seduto sul divano in pelle, Air Max ai piedi e Audemars Piguet al polso, nel rooftop della sua casa discografica, a Milano.

Non che gli altri non lo fossero.

Scrivere rime acute e incastri tecnici mi viene facile. A tratti non mi stimola neanche più. Diverso è quando devo mettermi in gioco in termini emotivi. Oltre al lavoro artistico c’è stata tanta frustrazione e nervosismo. Inizialmente anche titubanza, per la malinconia del disco. Ma la forza è anche lì.

Da dove arriva questa malinconia?

Dal fatto che sono diventato adulto. Ho realizzato quasi tutto quello che sognavo da piccolo, ma mi manca l’atmosfera degli inizi. Le battle di freestyle, prendere l’autobus da Vimercate per arrivare a Milano, incontrarsi al muretto con gli altri, fare la colletta per comprare le casse, e potrei continuare. Era tutto più genuino, tutto ancora da costruire. Quando cresci ti rendi conto che quelle atmosfere non le potrai rivivere mai più.

Nel 2014 hai raggiunto il picco celebrità, il video di Maracanã su YouTube è stato visto quasi 50 milioni di volte. E poi uno stop. Come se avessi deciso di riscrivere la tua carriera.

Il 2014 per me è stato un trauma. Ho sempre amato il rap e l’hip hop e d’un tratto sono diventato famoso. Non avrei mai sognato di fare una canzone per i mondiali, il compitino fatto per una rete tv che poi ti lancia, e ai festival arriva Laura Pausini a dirti «bello il tuo pezzo». Era strano.

Io quel periodo l’ho vissuto male, non volevo diventare il teen-idol che piace alle ragazzine e alle mamme. Quindi dopo ho provato a raddrizzare gli eventi. Forse ho esagerato, ho premuto l’acceleratore dall’altra parte per far crescere quelli che io chiamo i fan veri.

Però quella hit ti ha portato soldi e fama.

Quei fan non ti sono fedeli. Alle hit successive ti voltano le spalle. Preferisco vendere meno dischi ma avere un pubblico mio. Voglio essere l’artista preferito di qualcuno, non voglio essere l’artista ascoltato da tutti ma preferito da nessuno.

Chi ti ha ispirato?

Tanti. Ma il caso di Marracash mi ha dato fiducia. Dopo il suo disco Persona, tutti, anche se in ritardo, hanno capito il suo valore.

Nella canzone On fire canti «quattro di notte, spacco le nocche sopra le porte, mi dovrei calmare ma ho preso il peggio da mia madre. Ho questa collera che mi fa male». La rabbia è un problema di tanti. Come hai imparato a gestirla?

Devo ancora imparare, non penso di aver terminato il percorso. Di certo ho capito che è un consumo di energie che non porta a niente. Devo valorizzare ciò che di positivo ho ottenuto in questi anni, il bello che mi è capitato piuttosto che focalizzarmi sui torti che subisco ancora. Certo, non è facile, chi ha un carattere come il mio fatica a contenersi. Ma la consapevolezza c’è e ci provo ogni giorno.

Sanremo ti ha corteggiato, e hai sempre detto no. Dopo il successo di Lazza, se ti chiamasse Amadeus, andresti?

Penso che al Festival ci si deve andare col pezzo giusto. Lazza è uno dei miei artisti preferiti, oltre che una persona con cui sono cresciuto. Ma è andato lì con un pezzo giusto per quel contesto, non con un pezzo hip hop. Io mi chiedo: mi sentirei a mio agio a farlo? Non lo so. Sebbene si sia svecchiato, a Sanremo sono sempre gli artisti a dover scendere a compromessi. “Vado a Sanremo e porto il pezzo adatto”, dicono. Ma perché? Io devo portare un pezzo che mi piace. Poi se piace anche a Sanremo ben venga.

Nel disco metti in guardia i più giovani sul successo.

Il rap è un mondo che ostenta, ma non è questo il problema. Se ti attrae il personaggio che si fa le foto coi soldi per terra, la colpa non è dell’artista ma di te che ami quelle cose. Io ho fatto tutta la gavetta del rap, prendevo l’autobus, suonavo alla birreria di Verbania dove sopra il bancone c’erano 60 persone ad ascoltarmi ed era già un traguardo. Pochi giorni fa ho venduto tutti i biglietti per il concerto del Forum d’Assago, prima che uscisse l’album, e non era scontato. Agli artisti giovani dico: circondatevi di gente che vi apprezza per chi siete. E che compra i biglietti di un concerto sulla fiducia.

La traccia Col cuore in gola racconta di amici fraterni che si allontanano. È successo a te?

Se una volta pensavo che poteva succedere a tutti tranne che a me, ho capito sulla mia pelle che talvolta allontanarsi diventa inevitabile solo perché le esigenze cambiano. Prima uno inizia a farci i conti, e meglio vivrà la sua vita.

Sono tante le collaborazioni nell’album.

Sferaebbasta è stato tra i primi ad accettare e ho apprezzato la sua professionalità, a differenza di alcuni che hanno la metà dei nostri anni e sono spariti. Guè stava partendo e mi ha detto: «Il 27 registro la strofa», e il 27 avevo la strofa. Salmo, sono andato a trovarlo in studio. Aveva un lungo tavolo di legno coi pennarelli da writer, e mentre lui registrava gli ho distrutto il tavolo con le scritte. Con Coez avevo un credito in sospeso e finalmente abbiamo collaborato. Lazza mi ha dato un suo pezzo che sapeva mi piacesse, mi ha fatto un bellissimo regalo. C’erano anche altri con cui volevo collaborare, ma non si sono più fatti vivi. Però oggi ho imparato a essere grato a chi c’è e non pensare a chi non c’è.

Per un periodo sei stato molto attivo – e contestato – su Twitter. Ora non pubblichi quasi più. Perché?

Non parlo di politica perché non ne capisco molto. Nella mia testa però penso che al governo dovrebbero esserci persone competenti, e invece quelli che ci sono palesano di non esserlo. Questo mi fa rabbia e perdere fiducia.

Hai una figlia, Perla Blue di 5 anni, avuta con la tua precedente compagna. So che il pomeriggio non prendi impegni per passare il tempo con lei. Che cosa ti ha insegnato?

Sicuramente attraverso lei sto rivivendo l’infanzia che non ho avuto, per condizioni di vita e contesto diversi. Vedo il mondo attraverso i suoi occhi ed è un regalo. Se la porto al cinema, o ascolto canzoni che a me non sarebbero mai piaciute, vedere lei che si diverte come una matta fa ridere anche me. Più cresce, più lo scambio tra di noi si intensifica e non ho parole per spiegare quanto questa cosa mi cambi. La vita con lei ha un colore diverso.

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