Quanto era bello il calcio del passato, era più vero, più genuino, si giocava anche meglio, molto meglio, c’erano un mucchio di campioni, mica come adesso, lo dicono tutti, lo pensano tutti, ecco, non esiste più il calcio di una volta. Solo che prima o poi dovremmo metterci d’accordo, dovremmo riuscire a stabilire a quando risale questa famosa volta. Abbiamo trascorso quasi tutti i lunedì dello scorso campionato a discutere, addolorati del fatto che - maledizione - si segna meno, sono spariti gli attaccanti di un tempo. Ma quando si segnava di più, al primo quattro a tre, ci guardavamo in faccia e ci dicevamo che sono i difensori, il vero bene perduto, purtroppo non abbiamo più i Nesta e i Cannavaro.

Per fortuna gli archivi ci aiutano. Quando avevamo i Nesta e i Cannavaro, si scriveva che purtroppo mancava un Gentile, detto il Feroce Saladino, e quando avevamo il Feroce Saladino si avvertiva l’assenza di un Tarcisio Burgnich, detto la Roccia. Alla vigilia della sua cinquecentesima partita, proprio la Roccia disse in un’intervista che i giovani dell’epoca «non sanno soffrire, non portano rispetto agli anziani, non sono come gli Schiaffino e i Liedholm degli anni Cinquanta». Eppure se sfogliamo all’indietro i giornali fino all’altro ieri, sulle pagine del 1958 si leggono le parole di uno sconfortato Giuseppe Meazza per la mancata qualificazione dell’Italia ai Mondiali: «Chi non rimpiange ai giorni nostri i nostalgici tempi andati - disse alla Gazzetta - quando il football era bello, semplice, scevro dei tatticismi e delle polemiche imperanti al giorno d'oggi?». Non siamo mai all’altezza dei ricordi. Non ci sono mai i giovani di una volta. Perché quei giovani che rimpiangiamo eravamo noi, erano i nostri vent’anni.

Che cosa rimpiangiamo

Così succede che spuntino i nostalgici degli anni Settanta, quando i calciatori erano come noi, vivevano in appartamenti uguali a quelli dei nostri nonni, sposavano le fidanzatine del liceo, avevano genitori che non li incoraggiavano, anzi, per loro sognavano un diploma, li scongiuravano di non lasciare l’officina del carrozziere per tentare la fortuna. Il calcio senza divismo, insomma. Oppure c’è il partito dei nostalgici degli anni Ottanta, del Mundial di Rossi e Bearzot, il Mundial degli scrittori-inviati, Brera, Arpino, Del Buono, Soldati, Cancogni, tutti in Spagna, mentre la  serie A aveva  stadi pieni e spese senza limiti. Basta guardarsi in giro tra le pagine di Facebook, l’ultima riserva social dei boomer: foto, copertine dell’epoca, tutte le grandi stelle qui da noi, da Maradona a Zico, da Platini a Rummenigge, gli olandesi del Milan e Falcão. Ma già facciamo in tempo a circondarci di malinconia per i Novanta, inchiodati nel cuore dei prossimi cinquantenni, troppo piccoli per ricordare Bearzot e Paolo Rossi, legati allora al feticcio di Italia 90, le notti magiche inseguendo un gol. Così ci lasciamo accarezzare da biografie e documentari che ci ricordano la vera cosa che ci manca, l’ingenuità,  la capacità di stupirsi, l’incanto di quando sali le scale dello stadio e in cima c’è la luce, tutta quella luce e un grande prato verde.

La linea della frattura

È uscito da qualche settimana un nuovo libro generazionale che ronza intorno al tema. Sin dal titolo Quando eravamo felici, Corrado De Rosa dichiara qual è il campo nel quale intende giocare. Come già Paolo Virzì al cinema qualche anno fa, sceglie la semifinale mondiale del ’90 tra Italia e Argentina come partita «da cui tutto finisce», raccontando quel mese di calcio che mandò gli intellettuali a Capalbio come «un tempo indomito, sospeso fra memoria e speranza. Un tempo che deve riportare il paese con i piedi per terra». Secondo il modello di Italia-Brasile ’82 visto in La Partita di Piero Trellini (Mondadori, 2021), De Rosa concentra un decennio intorno a una sfida di pallone, «il decennio del recupero dei valori dell’antifascismo, di Officina 99 e della trasformazione del lessico quotidiano. Non più spazzini, operatori ecologici», e via così per bidelli, becchini, secondini, barboni, mignotte. «Una specie di purgatorio che porta dentro di sé i segni del domani».

Il micidiale 1992

De Rosa ha ragione. Quello fu l’ultimo Mondiale della nostra innocenza collettiva. Maradona provò a spaccare il tifo di Napoli, ma fu nulla rispetto al trauma di  quattro anni più tardi, la somma di Berlusconi al governo con i Mondiali in America, dove in campo scendeva una nazionale per la quale tanti dissero di non tifare: Forza Italia aveva smesso di essere  il coro di tutti, per diventare il nome del partito di una metà di noi.

Il calcio nel frattempo era già cambiato per sempre, ma non lo avevamo capito ancora. De Rosa dedica alcune pagine del suo libro ai portieri dei Mondiali del ’90, ma dimentica il nome di quello che inconsapevolmente ha stravolto il panorama e ci ha portato fin dove siamo. Un irlandese, Pat Bonner. Aveva tenuto il pallone in mano per complessivi 6 minuti contro l’Egitto, uno 0-0 inguardabile, i compagni gliela passavano, lui raccoglieva  e passeggiava in area. Un perditempo seriale, in un torneo nel quale per giunta gli attaccanti furono picchiati in modo selvaggio e si segnò pochissimo. La Fifa si dispose a rimettere il gol al centro del villaggio. Cambiò le regole. Il 23 luglio del 1992 si giocò l’ultima partita (El Salvador-Nicaragua) in cui veniva consentito ai portieri di raccogliere il pallone con le mani dopo un passaggio all’indietro, Dal giorno successivo, da Italia-Usa, ai Giochi di Barcellona, fu vietato. Il povero Antonioli si confuse.

Non è chiaro quanta consapevolezza avesse la Fifa del fatto che più gol volevano dire più spettacolo, più spettacolo significa immagini di valore superiore, più commercio, più denaro. La catena partì e regge ancora. Il Neo-Calcio è cominciato così. Ha mutato piano piano gli stili di gioco (tiki-taka, costruzione dal basso) e più velocemente le strutture finanziarie, con i diritti tv che hanno sostituto il botteghino come fonte di reddito. Il 1992 è l’anno in cui parte la Premier inglese come la conosciamo e la Coppa dei Campioni con il nome di Champions, con i gironi e più partite. È l’atto di nascita del concetto di bacino di utenza. Ai tifosi si sono affiancati i clienti. Se le tv sono diventate il bancomat del calcio, ogni scheggia allora non può che essere un prodotto, qualcuno lo chiama contenuto. Le società si sono trasformate in media company. L’accesso ai centri sportivi durante la settimana è stato lentamente negato. Possiamo vedere gli highlights di una partita da ogni angolo del mondo, ma un  nonno non può più portare un bambino a vedere un allenamento. Le interviste sono contingentate,  i detentori dei diritti tv comprano pure quelle. La gerarchia della ricchezza è cambiata. Tutto per un passaggio all’indietro. Gli albi d’oro sono stati stravolti. In Inghilterra non si sono più ripetuti  ex campioni come Leeds, Everton, Aston Villa, Nottingham. Fra 1969 e 1991 in Italia avevano vinto lo scudetto undici squadre diverse, cinque per la prima volta. Dal 1992 in avanti, 29 titoli su 32 sono finiti a Milan, Inter e Juventus. E gli altri? C’è un rifugio. La nostalgia. I bei tempi di Thuram e Weah. Nel frattempo sono arrivati i figli.

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