Dall’ingresso di Mario Draghi a Palazzo Chigi era lecito attendersi un equilibrato riformismo liberale. Niente di rivoluzionario, ma una sana gestione dell’economia, con una attenzione alla modernizzazione, sempre rinviata, dell’amministrazione e dei servizi. Era il minimo che una personalità così giustamente celebrata, e sostenuta da una maggioranza amplissima e dal sostegno della quasi totalità dei media e della classe dirigente, doveva apportare al nostro sistema. 

Dopo più di anno il risultato dell’azione di governo suscita perplessità. Lascia stupefatti la pratica del rinvio su alcuni temi scottanti. Invece di prendere decisioni nette sull’esempio di Mario Monti nel 2011, il governo si è limitato – anche se consentiamo che non è poco – a instradare il Pnrr sulla buona strada. Ma è esattamente quanto hanno fatto anche gli altri paesi europei. Niente di stratosferico.

Invece, temi scottanti e divisivi quanto centrali non stati affrontati a dovere. La riforma del fisco è limitata nel suo scopo e non c’è stato alcun cambio passo nel contrasto a elusione ed evasione. La revisione del catasto è stata allontanata come un calice amaro. E così, la rendita fondiaria continua ad alimentare il parassitismo e non genera alcun gettito.

In un paese civile la proprietà fondiaria viene tassata: qualcuno faccia un confronto con la liberista America… Si paga ancora pegno allo scasso delle finanze pubbliche imposta da Berlusconi al governo Letta nel 2008 con l’eliminazione populista dell’Imu (e ci sono anime belle che ritengono Forza Italia un partito responsabile: sì, responsabile dello sfascio.).

I bagnini, grazie all’ennesimo rinvio delle gare, continuano a dimostrare che le corporazioni possono imporre i loro privilegi a dispetto degli interessi collettivi. 

Insomma è triste, anzi disperante, che persino Draghi, che si inseriva idealmente nello gloriosa linea del riformismo politico-economico di Ugo La Malfa e di Federico Caffè e Franco Modigliani, non abbia potuto – non vogliamo credere che non abbia voluto – incidere sulle zavorre che frenano, e forse affonderanno, questo paese.

La guerra in Ucraina ha riproposto il dilemma tra burro e cannoni.  È giusto aumentare il nostro budget militare a quanto concordato con la Nato, perché i patti si rispettano; tale impegno non può però dissanguare i finanziamenti per i servizi e, ad esempio, lasciare ancora sguarnita la sanità. 

Le risorse vanno estratte dalle tasche degli italiani, da chi può permetterselo, e sono molti di più delle statistiche ufficiali delle dichiarazioni Irpef.  Da Draghi avremmo voluto più determinazione nell’incidere sui mali nazionali, anche scontentando quelli che Paolo Sylos Labini chiamava i «topi nel formaggio», cioè i difensori della loro “roba” grazie a norme ad hoc e privilegi vari, e i loro difensori politici.

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