Movimento Cinque stelle e “congresso” non sono due termini che uno si sarebbe mai aspettato di vedere uno di fianco all’altro. Eppure negli ultimi giorni e proprio di questo che si sta parlando: della possibilità di un’assemblea, gli “stati generali” del movimento fondato da Beppe Grillo. Un’occasione per affrontare alcuni dei tanti nodi organizzativi e politici che sono ormai sotto gli occhi di tutti specie dopo il risultato sconfortante delle elezioni regionali. È proprio questa una delle opzioni su cui in queste ore stanno votando i parlamentari del movimento 5 stelle, dopo l’assemblea di giovedì scorso, come alternativa a altre soluzioni come l’elezione una leadership collegiale una sorta di nuovo direttorio, come quello formato nel 2014 e archiviato nel 2016.

Il fantasma del partito

Le fibrillazioni organizzative all’interno del Movimento 5 stelle sono la dimostrazione che la debolezza organizzativa del movimento, alla radice della sua incapacità strutturale di essere competitivo nelle elezioni locali, stanno costringendo a mettere in discussione alcuni capisaldi organizzativi e ideologici del movimento (come dimostra la recente sconfitta in Puglia). Come sostengo nel mio libro I partiti digitali appena pubblicato da Il Mulino, il Movimento Cinque stelle è stato animato agli albori da una ideologia “partecipazionista”: vuole offrire ai cittadini una partecipazione diretta alle decisioni politiche. Questa ideologia vede la rappresentanza e le strutture intermedie del partito come distorsioni che hanno portato i cittadini a allontanarsi dalla politica e i politici a prendere decisioni senza tenere in conto il volere dei cittadini.

Il fantasma che aleggia in questa narrazione è quello dei partiti tradizionali, i vecchi partiti massa che hanno perso la loro massa di iscritti e sono diventati sempre più “partiti televisivi”, ditte di marketing politico, senza radicamento nella società e prive di legittimazione dal basso. In modo simile a tanti movimenti sociali e politici sorti negli ultimi anni, tra cui gli indignati spagnoli, Occupy Wall Street, così come partiti populisti di sinistra come Podemos in Spagna e France Insoumise in Francia, il sogno del 5 stelle era quello di una politica in cui i cittadini recuperassero controllo diretto sulle decisioni all’insegna dell’egualitarismo dello slogan “ognuno vale uno”.

Questa narrazione partecipazionista prometteva di eliminare le gerarchie e le mediazioni politiche, portando persone come Gianroberto Casaleggio e Grillo ad abbracciare l’ideale anarchico della leaderlessness (ovvero assenza di leadership). In una democrazia radicalmente disintermediata grazie al portento digitale della piattaforma Rousseau, non ci sarebbe più stato bisogno di leader, e gli eletti sarebbero stati puri cittadini-portavoce, puro megafono delle decisioni prese dal popolo grillino.

Negli undici anni intercorsi dalla nascita ufficiale del Movimento 5 stelle tutti i limiti di questo impianto si sono palesati. È vero che con Rousseau il movimento si è dotato di un sistema snello e rapido per prendere decisioni e ha dato vita a alcune promettenti innovazioni partecipative, ad esempio sullo sviluppo collaborativo del programma elettorale. Tuttavia ci si è illusi che la piattaforma decisionale potesse ovviare alla necessità di dotarsi di una struttura organizzativa solida sia a livello nazionale che a livello locale.

Rassegnati a organizzarsi

Subito dopo le elezioni del 2013 l’idealismo del movimento si è trovato a fare i conti con la realtà della democrazia rappresentativa e il sistema dei media che tende a rendere alcuni volti e personalità più riconoscibili e l’impossibilità di ridurre i rappresentanti eletti a puri avatar dell’intelligenza collettiva del movimento. Di fronte a queste contraddizioni il movimento si è trovato a fare una serie di bagni di realtà. Prima si è trovato a dovere nominare una “segreteria”, il famoso Direttorio creato nel 2014. Poi ha eletto con risultati bulgari Luigi Di Maio come leader in vista delle elezioni del 2018, per sostituire la figura di garante leader/non-leader o “dittatore benevolo”, per usare i termini della cultura del software libero, fino ad allora interpretata da Beppe Grillo. Infine ha recentemente eliminato la regola anti-leaderista del doppio mandato (anche se per ora soltanto nei comuni).

A livello locale invece il movimento ha continuato a rifiutare la creazione di strutture anche minime di organizzazione. Mentre i Meet-Up venivano di fatto esautorati, con la famosa lettera ai MeetUp firmata da Luigi Di Battista e Roberto Fico, del Luglio 2015, il partito non si è dotato di nuove strutture locali che potessero sostituirli in maniera efficace. Da qui l’incapacità del movimento di radicarsi territorialmente e di formare una classe dirigente capace di vincere elezioni a livello comunale e regionale.

Nel frattempo anche i limiti della piattaforma Rousseau, gestita gelosamente da Davide Casaleggio, erede di Gianroberto a cui si devono alcune delle geniali intuizioni che hanno ispirato il movimento, si sono palesati. Lasciando perdere i dibattiti sulla privacy e la sicurezza informatica, basta guardare a un dato per vedere i limiti della piattaforma. Davide Casaleggio aveva sostenuto nell’Agosto 2017 che il Movimento 5 Stelle puntava ad arrivare a un milione di iscritti entro il 2018. Siamo nel 2020, ovvero 2 anni dopo la data a cui Casaleggio faceva riferimento e il Movimento 5 Stelle e fermo attorno a quota 100.000, anche a causa di una procedura di iscrizione piuttosto farraginosa.

Di fronte a questi limiti, il Movimento dovrebbe prendere questo momento difficile come una prova di maturità. La sua crisi non ha tanto a che fare con lo scontento della base verso un governo che invece gode di forte sostegno e che è in buona parte espressione del Movimento Cinque stelle. Piuttosto è frutto dell’inconsistenza strutturale e tattica del movimento fondato da Beppe Grillo. Continuare a baloccarsi con il rifiuto dell’organizzazione, e con una disintermediazione totale come fatto ancora negli ultimi giorni da Grillo, con la proposta di una democrazia del sorteggio è indice di un’attitudine utopista e autolesionista che buona parte del popolo 5 Stelle sembra pronto a superare.

Oltre il digitale

Quello a cui dovrebbe puntare il 5 Stelle è una sintesi tra l’afflato partecipazionista, la democrazia digitale degli albori e un’organizzazione più strutturata, trasparente e capillare che gli consenta di radicarsi a livello territoriale e di formare una classe dirigente capace di vincere contro potentati spesso basati su logiche clientelari.

Un congresso non è una cura a tutti i mali, specie se diventa occasione per faide interne piuttosto che un momento costruttivo di confronto e democrazia. Ma quello che è evidente è che continuare a intestardirsi su una democrazia del clic, non accompagnata da un processo più organico di dibattito interno e di organizzazione territoriale, significa condannare il movimento all’inadeguatezza e all’incapacità di dare rappresentanza al proprio popolo.

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