C’è una pièce teatrale di Céline, intitolata Progresso, in cui un voyeur si reca in un bordello e chiede alla direttrice di essere sistemato in una stanza da cui si possa spiare; ma sfortuna vuole che anche i clienti successivi siano voyeur e che nessuno si decida a fottere. Qualcosa di simile sta accadendo nella contemporaneità occidentale, molti guardano ma pochi hanno voglia di agire.

Per questo dobbiamo essere grati a chi, sui social e nei reality, ama essere visto mentre agisce: l’esibizionismo altrui è la consolazione degli svogliati. Il tormentone è naturalmente quello della sincerità: i partecipanti ai reality si rinfacciano a vicenda “non sei vero”. Ma è un falso problema.

Come già spiegava Sartre una settantina d’anni fa, si vive in malafede credendo con perfetta buona fede al personaggio di noi stessi che abbiamo creato, e la sincerità personale è necessaria alla riuscita della menzogna collettiva.

I social e i reality enfatizzano un atteggiamento generale: per sfuggire alla nostra libertà, ci inventiamo una maschera a cui essere fedeli – il nostro ‘io’ diventa “una coscienza chiacchierina che racconta se stessa”.

In questi settant’anni il processo è andato molto avanti, le nuove forme interattive di comunicazione hanno complicato l’incrocio degli sguardi: l’influencer deve tener conto dell’opinione dei follower e adeguare il proprio agire di conseguenza, quindi lo spettatore è guardato a sua volta.

Dal punto di vista di chi si esibisce, siamo molto oltre il narcisismo, perché il fine ultimo non è l’annegamento nello specchio ma la spinta all’acquisto, data la pubblicità che le aziende affidano alle webstar più note. L’esibizionismo come mestiere, in una economia in cui una sola persona è al tempo stesso imprenditore, imbonitore e prodotto.

L’eccesso selvatico di vitalità

Durante i mesi del lockdown mi sono chiesto come stessero sopravvivendo gli influencer, come mantenessero il proprio appeal in una fase poco favorevole alla leggerezza, quando la foto di un’infermiera riceveva più like di una bella donna discinta che sale le scale.

Qualcuno, come Chiara Ferragni, era stato prontissimo a riciclarsi in chiave di impegno umanitario, ma altri si lamentavano di essere ridotti a fare gli auguri di compleanno a pagamento.

Non so perché, questa curiosità mi si era riassunta in una domanda dall’allure cinematografica, “che fine ha fatto Taylor Mega ?”

Si era buttata sul fitness, ripeteva anche lei che l’isolamento la stava aiutando a riscoprire gli affetti veri, ma aveva gli occhi mogi.

Tra quelli che avevano puntato sul fisico e sulle sciocchezze, mi aveva sempre colpito per un eccesso selvatico di vitalità: c’era un’incrinatura nel suo personaggio, un di più di inquietudine, come se la maschera non aderisse perfettamente al viso.

La ricordavo in un collegamento da Dubai, col gomito che le scivolava dal tavolo perché era evidentemente un po’ brilla; una di quelle cose che non si fanno, un errore nella grammatica del bon ton mediatico.

Ora Taylor Mega si presenta con un libro pubblicato da Mondadori Electa e intitolato La bambina non c’è più. Il libro è corredato da molte foto del suo impeccabile corpo presentato a frammenti: prima una spalla, poi un pezzo di schiena, poi il naso, le mani eccetera, lasciando al lettore il compito di completare il puzzle.

Una tecnica seduttiva forse memore (o forse no) di un episodio dei Figli della mezzanotte di Salman Rushdie, quando il giovane medico Aadam Aziz si innamora di una ragazza proprio perché il padre di lei, geloso, gliela fa visitare a pezzi a seconda della malattia che di volta in volta si inventa, attraverso un lenzuolo bucato da cui si intravedono la gola, il fianco, il petto, i piedi.

Soltanto verso la fine del libro Taylor appare intera, dalla vita in su, coi capelli biondi che le coprono il seno e in mano una macchina fotografica, a ribadire l’idea del guardato che guarda. Finalmente (sembra dire) ci sono, ho ritrovato la mia integrità, senza più vergognarmi perché ce l’ho fatta.

Caduta e riscatto

La storia autobiografica è di quelle "forti”: Elisia (il vero nome di Taylor) è una bambina ribelle, una bastian-contrario un po’ stretta tra una sorella maggiore giudiziosa e una sorella minore coccolata; comincia a trasgredire molto presto, bevendo ed entrando in contatto con l’escalation delle droghe: canne, bong, anfetamine, eroina sniffata, fino al buco e agli speedball.

Tra i 14 e i 18 anni non si fa mancare niente, mettendo a rischio bellezza e salute. Incontra maschi violenti che la maltrattano, cede a voglie di autodistruzione; poi la gran forza di volontà, la buona situazione economica dei genitori e il lavoro nei campi la rimettono sulla strada del rispetto di sé.

Nel finale ci troviamo di fronte a una nuova Elisia, che vuole conquistare il mondo e si permette di dare buoni consigli, rivendicando la propria libertà, la propria fluidità sessuale e l’importanza di avere ambizioni.

La storia è stilizzata, quasi agiografica: caduta e riscatto. Quanto l’esperienza sia vera o meno non importa, il racconto soffre per mancanza di dettagli realistici; l’obiettivo è sempre puntato sulla protagonista presentata come vittima di un repertorio fin troppo noto. L’interesse nasce soltanto se questo libro non lo consideriamo un testo ma un gesto; l’autrice è più forte della propria autobiografia.

La Taylor che si è fatta conoscere attraverso i media non è una vittima ma una forza della natura, un animale non addomesticabile che ha percorso tutto il cursus honorum: Isola dei famosi, Grande fratello, fidanzata di Briatore, salotto della D’Urso, Instagram e ora questo libro che prelude a un sequel.

Una prima "confessione” orale della travagliata adolescenza l’aveva già tentata sull’Isola, in una spericolata gara tra lei e Mediaset a chi strumentalizza chi; le vecchie volpi opinioniste, che sanno quando una trasgressione cessa di essere accettabile, hanno avuto buon gioco ad attaccarla, ma lei attraversa i reality e i talk senza subirli, con la forza della grinta e di una finta/vera ingenuità.

E’ finta ingenua quando sfrutta lo scandalo come asset aziendale, è vera ingenua quando scopre il femminismo da una serie di Netflix (Storia contemporanea in pillole, 7° episodio), è ambiguamente ingenua nel suo essere così palesemente calcolatrice. E infine è doppiamente ingenua perché svela con candore le radici psicologiche di un trend letterario.

Da qualche anno è nata la moda del romanzo impegnato inteso come risarcimento, penitenza e riscatto: penitenza per ciò che l’umanità ha fatto al pianeta e per l’indifferenza mostrata verso il dolore degli ultimi, riscatto del mestiere di scrittore mediante la nobiltà delle intenzioni e l’intento educativo. Come se oggi essere frivoli, o seguire il principio di piacere, fosse una colpa.

Altri, più culturalmente attrezzati di Taylor, nascondono con astuzia la coincidenza tra principi etici e visibilità personale; lei crede sinceramente che il suo libro possa aiutare i ragazzi e le ragazze “senza prospettive”.

E’ un po’ di tempo che il bisogno di assoluto, la sensazione che vivere-e-basta sia troppo poco, ha affiancato alle vie consuete (della religione, dell’utopia politica e della perversione) quella della spensieratezza spettacolare, del brillare a vuoto, dell’identificarsi in chi domina un palco.

Possiamo deprecare l’andazzo, ma per opporci a questa deriva non possiamo cancellare la "fame” originaria. Dunque vorrei difendere Taylor dal suo stesso libro e dirle di non perdere il dono della sfacciataggine: la bambina ribelle è ancora lì, non la soffochi per favore – scompagini, sparigli, faccia incazzare.

Nel sequel, se ci sarà, non abbia paura dell’arroganza: mostrando nuda se stessa, mostri nudi i nuovi alibi e le scritture troppo facilmente edificanti.

          

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