Tina Turner è stata una delle grandi figure pop del Novecento. Restano negli archivi delle tv i suoi videoclip coi colori sbiaditi del nastro magnetico. «Sono una ballerina privata/ ballo per soldi/ faccio tutto quel che vuoi tu/ Voglio fare i milioni e abitare al mare», cantava in Private Dancer, dentro uno scenario di kitsch sfacciato con una lontana eco di rabbia e malinconia nella voce. La canzone gliel’aveva scritta il chitarrista dei Dire Straits, Mark Knopfler.

Da quando a metà degli anni ’80 quasi cinquantenne aveva saputo rovesciare ciò che il destino (e il suo marito/pigmalione Ike) le avevano scritto fino nel nome, lei era diventata un simbolo dell’empowerment femminile, come Madonna, della rottura dei limiti della cultura afroamericana, come Prince. Però, all’epoca aveva già vissuto tutta un’altra vita precedente, forse due contando la sua adolescenza in provincia. «Cos’ha a che fare l’amore con tutto questo?/ L’amore è soltanto un’emozione di seconda mano», cantava  ancora in What’s love, un altro dei suoi successi. E ogni volta raccontava di nuovo un pezzo della sua biografia. 

Per tutti Tina

Si chiamava Anna Mae Bullock. Per tutti era Tina. Come Shena, la “donna della giungla” dei fumetti di Tarzan (che però nei film della serie era sempre stata bionda, sexy e bianchissima), interprete di una sessualità magica e pericolosa che strizzava l’occhio soprattutto ai bianchi, etero o gay che fossero.

Idea di Ike Turner, il Turner del cognome, musicista sopraffino venuto dal Mississippi, uno degli inventori mai riconosciuti del rock’n’roll con un istinto pazzesco per lo spettacolo: negli anni ’60-’70 la sua revue con Tina era l’unica a poter tenere il passo con quella di James Brown. E come quella di James Brown impastata dietro le quinte della stessa ossessione patriarcale, paranoia, voglia di rivincita, di cui Tina fu la prima vittima. «Faccio quello che dice il mio uomo/ sono pazza per amore» cantava lei nella sua prima canzone interpretata (per caso) con Ike, e quel perverso rapporto tra narrazione e vita non l’avrebbe più abbandonata.

Prima di sposarla lui le aveva costruito addosso il personaggio e aveva depositato il nome, in maniera da poterla sostituire facilmente quando se ne fosse andata. Non fu così. Unica vittoria di Tina in un divorzio arrivato dopo 15 anni di botte e umiliazioni al limite del sadismo fu quella di tenersi il nome per sé, rinunciando comunque al resto, soldi e tutto.

Scappata letteralmente dopo una notte di violenza come tutte le altre, a Dallas, aveva ricominciato da zero ed era diventata la popstar di popolarità planetarie che tutti ricordiamo. Ogni sua performance avrebbe raccontato senza bisogno di dirlo gli abusi e le violenze subite, la forza di sopravvivere e di rinascere. Era diventata buddista, la conversione era stata la sua prima terapia.

Tina/Anna Mae, nata poco prima della guerra in una cittadina del Tennessee dove i genitori avevano ancora lavorato nelle piantagioni di cotone: Nutbush. Non c’erano motociclette e i bar non vendevano whisky come raccontava in Nutbush City Limits, la canzone che aveva dedicato ai ristretti orizzonti della sua adolescenza.

Era cresciuta cantando nel coro della chiesa battista. Da qui venivano i graffi, gli eccessi e le fioriture estatiche della sua voce. Phil Spector, che aveva prodotto River Deep, Mountain High uno dei capolavori del “wall of sound” nel 1967, l’aveva costretta a tenersi attaccata il più possibile alla melodia, in una session per orchestra e coro che si ricorda costosissima e leggendaria: completamente trasfigurata, fradicia di sudore, con alla fine addosso soltanto il reggiseno, Tina cantò i versi «ti amo nello stesso modo/ in cui ho amato la mia bambola» con un impasto di fatalismo, sesso, malinconia, segreta autobiografia che rovesciava per sempre il cliché sofferente della torch song in un più moderno rituale di masochismo e perdita di sé.

Phil Spector, che con le donne sarebbe stato un uomo ancor più violento e criminale di Ike Turner, aveva pagato quest’ultimo 20.000 dollari per starsene fuori dallo studio. La cosa ancora più incredibile è che la coppia Barry-Greenwich che firmava la canzone si stava per separare e Ellie Greenwich scrisse il testo piangendo a ogni riga poco prima di registrare.
Eppure River Deep, Mountain High arrivò soltanto all’88° posto delle classifiche americane. Ancora segregato tra rock bianco e R&b nero, il mercato non era pronto per Tina Turner.

Lei poco dopo canta Proud Mary dei Creedence Clearwater Revival, in una versione lunghissima e meravigliosa di cui si conserva su YouTube la registrazione per la Rai di Teatro Dieci, al Delle Vittorie, da rivedere. A proposito, Tina Turner si rivide in Rai nel 1979 partecipare come ospite fissa a Luna Park, varietà di Pippo Baudo, in un momento di particolare incertezza della sua carriera. Ma è un’altra storia. Rifà Under My Thumb degli Stones, canta il country, canta persino Bob Dylan. Ogni volta è quasi come se la sua fosse la versione originale. Nella voce di Tina Turner il rock torna alla storia alla quale apparteneva, quella delle grandi performer afroamericane come Sister Rosetta Tharpe o Big Mama Thorton, e alle quali tutto era stato rubato. 

L’Inghilterra

Non solo. Negli anni, sotto una parrucca sempre più barocca, il suo personaggio si era arricchito di ogni genere di fantasia maschile. Roba da manuale di psicologia collettiva. Mick Jagger aveva voluto Ike & Tina Turner come supporter dei tour dei Rolling Stones di fine anni ’60. Il legame tra i due, Mick e Tina, sarà da allora profondissimo: quel che Jagger aveva rubato nei suoi movimenti a James Brown e alle performer afroamericane, con una queerness esibita che aveva cambiato il mondo dello spettacolo e l’immagine della sessualità maschile, Tina Turner se lo riprende con gli interessi.

Ma il suo stile di ballo ultracinetico scatenato con le tre Ikettes nel frattempo era già esplosivo, rivoluzionario, puro musical hippy. Non è neppure chiaro chi impari da chi, allora. Sul palco del Live Aid nel 1985, durante il duetto su It’s only rock’n’roll di fronte a un miliardo di spettatori, Jagger le strapperà la minigonna di pelle nera di dosso, con un gesto crudelissimo, involontario oppure no non si è mai capito.

È in Inghilterra, comunque, tra i ragazzi che avevano il culto per la spietatezza e l’enormità della messainscena della musica afroamericana che Tina Turner ha potuto diventare alla fine quella che abbiamo conosciuto bene. David Bowie, a metà degli anni ’70 dopo la fine del legame con Ike Turner, è stata una delle persone che l’hanno aiutata a mantenere in piedi un contratto discografico con la Capitol.

Appariranno insieme in un duetto video su Tonight, canzone dal testo pieno di arcani, lui vestito di bianco candido. E la rinascita di Tina degli anni ’80 si deve anche all’affetto che una certa new wave elettronica inglese nutriva per la musica nera, il cosidetto northern soul: Ball of Confusion dei Temptation e Let’s stay together di Al Green tornano per prime in una brillante versione arrangiata dagli Heaven 17 di Sheffield, una riscoperta d’autore, prima del successo planetario dell’album Private Dancer.
Nel 1974 Tina Turner era diventata Acid Queen dell’opera rock Tommy degli Who, la sacerdotessa magica psichedelica in un bordello di Soho che inietta Lsd nella vene del protagonista cieco e muto al mondo. Il regista Ken Russell aveva lavorato di grandangoli e zoom in una performance rimasta giustamente classica del rock movie. Lei ci aveva messo il gusto dell’eccesso e per la rappresentazione dei lati oscuri della sessualità che sarebbe rimasta la sua impronta.

Dieci anni dopo il cinema le regalerà un’altra meravigliosa maschera, quella di Aunty Entity in Mad Max 3 di George Miller: regina di un mondo postatomico spietato nel quale riesce a conservare un lato materno e umano, e già definitivo bilancio dell’epoca dell’iperliberismo. «Non abbiamo bisogno di altri eroi», canterà in un’altra delle canzoni che si attaccheranno per sempre al suo repertorio e alla nostra memoria.

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