Difficile parlare di qualsiasi cosa che non sia lo schiacciarsi con la faccia dentro la tv (di nuovo, ancora, né rete né social bastano questa volta) per assistere alla Storia, e a un esplodere di case e corpi, e mezzi di attacco e trabiccoli di fuga – con due zaini, una sacchetta, non di più – verso il nulla. Niente conta al di fuori di questo. Che ci riguarda, che ci ri-guarda ancora una volta. È iniziato alcuni sabati fa con il cielo solcato da strisce bianche ovunque. Aria, vapori, fumi, senso di  soffocamento, corridoi, asfissianti stanze segrete erano quello che mi proponevo di iniziare a raccontare, prima che precipitasse tutto.

Non credo che questo percorso - almeno per la gran parte - regga in alcun modo il confronto con ciò che sta accadendo, ma forse va utilizzato come una sorta di momento di pausa o di anticipazione di questa angoscia che forse proprio grazie questo nebbioso distacco dal mondo in carne e ossa è rimasta acquattata fino sbucare di colpo nello stramaledetto inferno del reale. Esisteva/esiste in questo momento una sorta di zona maggiormente libera dalla scorticatura di immagini e parole scritte che hanno cauterizzato il nostro occhio e le nostre retine per troppi anni e sotto ogni forma.

È l’orecchio, l’audio come zona parzialmente vergine rispetto alla narrazione spappolata – seppur non criticabile - degli shorts e delle dirette Instagram e della stessa pacata “civiltà” dei podcast (che pur sempre parola sono, anche quando post-prodotta con effetti, sottofondi e materiali di archivio).

Questa zona ancora parzialmente sensibile è stata al centro della Biennale Musica a Venezia che sui è appena conclusa, titolo Micro-Music, che proprio ai suoni che possono abitare questi interstizi era dedicata. A partire dal Leone d’Oro alla Carriera tributato al re assoluto degli universi fatti di apparentemente puri pulviscoli sonori, Brian Eno, in questi ultimi due anni mai così in forma poi (fa uscire un singolo al mese, ha prodotto un capolavoro con Fred Again e una formidabile colonna sonora per la serie “Top Boy”, e mille altre cose).

Il festival si è avventurato finalmente nella realtà della più vitale composizione contemporanea, con l’ingresso di creatori di vere e proprie forme soniche pervasive, sottili, vertiginose: JJJJerome Ellis, Lamin Fofana, Dj/Rupture, Loraine James, Morton Subotnick, una notte a cura di Sonic Acts di Amsterdam, tra il resto. 

Impossibile non notare che almeno alcuni di questi nomi (Kode 9, per dire) siano da vent’anni esatti al centro del più importante appuntamento annuale dedicato all’avant-pop e alla forme più porose di ritmica di nuova sintesi e quindi da ballo (molto importante, specie di tempi bellici, da sempre): il festival internazionale “Club to Club” al Lingotto d Torino di Torino, dal 2 al 5 Novembre. Che celebra il ventennale con una grande parata di esploratori appunto delle zone meno decotte dell’orecchio e del corpo: Rachita Nayar. Overmono, Lucretia Dalt, il cast dell’etichetta berlinese Pan creata da Bill Kouligas, Yves Tumor, Space Afrika, Flying Lotus, e via così. Da molto tempo, C2C – come si chiama per acronimo- ha abbandonato l’idea riduttiva di “dance” per ricercare forme più complesse e inedite di ricerca e seduzione aurale.

Valga per tutti l’indimenticabile performance dell’anno scorso degli Autechre, completamente al buio, non a caso inclusi come gemma assoluta anche nel calendario della Biennale veneziana raccontata qui sopra. Tutti creatori di spazi sonori alterati altrettanto sconvolgenti nella loro sottigliezza e angolarità.

Come ben si è visto/sentito domenica scorsa durante la performance di una delle superstar storiche che hanno partecipato al festival torinese, questa volta a Roma, al Teatro Argentina, per “Romaeuropa”: Caterina Barbieri, straordinaria creatrice di complessi paesaggi in audiorama che lambiscono quella parte del cuore rimasta fuori dallo strazio geopolitico, o come si diceva bisognosa di sollievo per qualche ora.

A proposito di creatrici/creatori di mondi: è uscito all’inizio di settembre da Nero Edizioni Exit Strategy di Valentina Tanni - titolo che ora, appunto, suona più che mai appropriato - saggio dedicato in buona parte non solo a tutto questo ma soprattutto ai micromondi che l’enorme comunità sotterranea digitale (detto per brevità, essendo definizione ormai dissolta nel reale) ha costruito in questi anni per dare forma alle inquietudini - forse ormai cretine - di alcuni degli abitanti che popolano interstizi e sottoboschi e sotterranei diciamo della rete. Anche in questo caso si parte dall’orecchio, dal sottogenere vaporwave – che ha lambito i cast delle sue megarassegne di cui sopra - fino alle creazioni di spazi di inquietudini e pseudopaura (corridoi vuoti di building aziendali o tunnel della metropolitana, apparizioni di figure simili ai bau-bau che si prospettavano solitamente ai bambini, ecc). Tanni è una ricercatrice eccezionale e probabilmente unica.

Percorre quest’enormità di soglie, spazi disabitati o comunque liminali dentro paludi numeriche, con una assoluta naturalezza, riflessa da una scrittura limpida e sicura, che si avventura nei generi più cari pure a noi, quelli col suffisso – core: dal dreamcore, al traumacore al weirdcore (“una rappresentazione visiva delle forme di depersonalizzazione e derealizzazione, tutto sembra sfuocato e avvolto nella nebbia”) fino al trionfo si fa per dire del corecore (“una teoria popolare dell’estinzione, fatta dalle masse per le masse, avendo tutti la sensazione che il mondo stia finendo forse per la prima volta sul serio e che non possiamo farci nulla” citanto Lovink). È questo continuo guizzo che rende Exit Strategy una narrazione che dalla teoria arriva fino alla migliore letteratura di genere. 

Inutile sottolineare come di “strategie di fuga” e di “uscite di sicurezza” sia fatta solo una parte della cronaca di guerra di questi giorni (purtroppo non immateriale, ma in parte mutata dal war-gaming sanguinario certo sì). Sono finite la melanconia degli androni e la teoria de core dell’estinzione di massa. Per far posto alla paura e al terrore, veri.

© Riproduzione riservata