L’outing dei vip col covid: ecco uno fra i fenomeni nuovi di quest’epidemia. Durante la prima ondata, i contagi dei famosi creavano angoscia. Quando il 25 marzo si annunciò che Angelo Borrelli non avrebbe presenziato la consueta conferenza stampa giornaliera perché aveva un po’ di febbre, e tutti pensarono che fosse contagiato anche lui, dilagò l’angoscia: come quando nei film di zombie viene divorato l’annunciatore del telegiornale, e quello è il segnale che la società sta collassando: se il problema non è più solo nelle comunicazioni ma anche nei comunicatori, allora l’apocalisse è più vicina.

Ad ogni modo, Borrelli il covid non ce l’aveva: la sua era una febbre comune. Era il tempo del lockdown, i contagi vip si contavano sulla punta delle dita. Ora invece, nell’impennata verticale della seconda ondata, di celebrità contagiate ce ne sono diverse.

Ammettere di avere il covid pone già di per sé un problema di comunicazione che spesso assomiglia a un outing. A volte sembra uno stigma di specialità: quella cosa di cui tutti parlano io ce l’ho. Ci si proietta immediatamente al centro dell’attenzione, si viene monitorati, osservati, interrogati; si è protagonisti di testimonianze e procedure altrimenti solo giornalistiche. Si può dire dal di dentro come funziona o non funziona il sistema. Si può dire: io che ho il covid ce l’ho avuto. Un atteggiamento da testimone privilegiato, da inviato nella zona di guerra (che in questo caso, curiosamente, non è un luogo ma una condizione). Nei politici il covid diventa lo strumento di una postura mediatica: la remissione di Johnson, la bontà cosmica di Berlusconi, il grottesco titanismo di Trump.

Nelle celebrità sportive – la categoria forse più monitorata di tutte – il contagio offre un’articolazione in più. Il covid diventa anche qui spesso una ragione intrinseca di comunicazione, qualcosa di non neutro né di esterno, ma di funzionale al proprio percorso. Superare il covid è prova di forza, avversario da sconfiggere, rabbia dell’impotenza, in vista di un ritorno “più forti di prima”. L’atleta è potenza, agonismo, performatività, superamento degli ostacoli. L’emblema di una società fondata sull’idea di sfida.

Il 24 settembre, alla notizia della positività, Zlatan Ibrahimovic ha twittato così: “Il Covid ha avuto il coraggio di sfidarmi: pessima idea”. Si annunciava un corpo a corpo col Covid-19, e sulla vittoria del virus stavolta nessuno ci avrebbe puntato un centesimo. Infatti quindici giorni dopo, il 9 ottobre, Ibra twitta: “Quarantena finita, posso uscire”. L’hashtag è “fuckcovid19”. Scontro finito, virus liquidato, si torna sul campo. Il secondo hashtag, nella solita retorica di basso profilo dello svedese, è “godiscomingforyou”. Detto fatto. Sabato, al suo ritorno in campo dopo il virus, Ibrahimovic domina l’Inter nel derby meneghino, regalando al Milan una vittoria che mancava dal 2016. Il commento social è stato la foto di un leone col muso imbrattato di sangue. Lo scontro col virus sembra averlo galvanizzato: è una prestazione, l’ennesima, con cui Ibra espelle tutto ciò che non è Ibra – avvilimento, mestizia, veleno, sconfitta.

A suo modo teatrale è anche la reazione del contagiato più famoso del momento, Cristiano Ronaldo, che già allo stadio Do Dragao contro la Croazia, seduto in tribuna, aveva dimenticato di mettere la mascherina e aveva dovuto farselo ricordare dalla responsabile sicurezza. Se l’è preso in Portogallo, con la sua nazionale. Comunicazione discreta, la sua: la foto in piscina nel suo dorato isolamento di Torino ha colpito tutti (“Un lockdown così non fa paura”). Il messaggio è diverso da quello di Ibrahimovic, ma in un certo senso forse più sfacciato: l’ostentazione del proprio corpo sovrumano e della propria ricchezza come barriere invalicabili per qualunque agente patogeno o di qualsiasi tipo. Foss’anche un ministro della Repubblica, quello dello Sport, con cui è nato un diverbio. Vincenzo Spadafora ha accusato Ronaldo di aver violato il protocollo covid; il portoghese gli ha risposto in una storia instagram sostenendo che sono tutte bugie, e senza neanche nominare il ministro (lo chiama “un signore in Italia”). Anche la sorella di Ronaldo, Katia Aveiro non l’ha toccata piano: “Se deve essere Cristiano Ronaldo a svegliare il mondo, allora quest’uomo è un messaggero di Dio. Da oggi migliaia di persone smetteranno di credere alla pandemia e ai test. La più grande frode da quando sono nata”.

In questo panorama di quella che alcuni definirebbero mascolinità tossica, particolare ed emblematica è stata la reazione di Federica Pellegrini. La campionessa veneta è risultata positiva al covid e non potrà partire per l’International Swimming League di Budapest. L’ha comunicato, in lacrime, in una diretta instagram. Siamo un paese che ha per le lacrime una particolare, quasi morbosa attrazione (le lacrime di Elsa Fornero sono già diventate storia), e il video è subito diventato virale. Federica Pellegrini ha cominciato un diario pubblico sulla sua quarantena, che è ancora in corso, e tutti si augurano ovviamente che si riprenda presto. Ma le sue lacrime continuano a girare ancora oggi, leggermente indecifrabili, come un oggetto mediatico di difficile identificazione. Il pianto pone sempre difficoltà: è un atto estremo, un all-in dell’emotività, quello che in recitazione si chiama overacting – eccesso di pathos.

Che lacrime sono, quelle di Federica Pellegrini? Lacrime di rabbia, di dolore, certo – di frustrazione e anche di paura. Lacrime, penso, di disorientamento. Viene da pensare che inizi a pesare nelle psicologie la pressione di una comunicazione sul virus forse inadeguata e irrazionale, che da un lato martella su toni iperdrammatizzanti, e dall’altro – nei social sportivi, appunto – tratta il virus come una performance individuale. Da un lato l’angoscia, dall’altro un’ottusità gonfiata di machismo. Nel segno di una retorica che – non da oggi, certo – continua a parlare dell’esperienza della malattia come di una battaglia da vincere, e non come, più realisticamente, di un’impotenza da attraversare. Il contesto del covid-19 fa sembrare spesso il contagio come un castigo divino, la punizione di un’imprudenza. Si è parlato, per altri contagiati meno simpatici di Pellegrini, di “giustizia poetica”. Sembra a volte di essere tornati indietro, in un nesso malsano tra morbo ed etica che non si vedeva dai tempi dell’hiv.

Una richiesta di perdono

Penso che le lacrime di Federica Pellegrini abbiano anche questo segno: quello della richiesta di perdono. Che esigenza spinge qualcuno a sentire il dovere di comunicare via social un momento di fragilità? E di farlo a caldo, senza aspettare di ricomporsi o di metabolizzare la notizia? La ragione è semplice: perché oggi solo l’emotività garantisce il suggello della verità. Quelle lacrime sono il sigillo di una sincerità umana altrimenti indimostrabile, e come tali sono preziose: vanno offerte, mostrate, significate. Sono lo strumento con cui domandare alla grande assemblea degli utenti un perdono che non c’è neanche ragione di chiedere e una vicinanza di cui è triste aver bisogno.

La malattia non è un castigo e non è una sfida: la malattia – e questa più di ogni altra – è casomai un mistero. Ed è forse più interessante – non solo sportivamente ma anche mediaticamente – la storia di uno smarrimento che non quella di una sfida. La confusione, lo sgomento nello scoprire che il corpo – perfino il corpo iperperformante di un atleta – non ci appartiene sino in fondo, e non è l’esatto risultato di una volontà. Il corpo come luogo di un inaspettato straniamento, di quella domanda su cui si fonda quel capolavoro che è La lezione di anatomia di Philip Roth: “Cosa vuole da me questa malattia?”. Questo, più dell’ennesimo challenge stupidamente mascolino, sarebbe forse più prezioso: una sperdutezza che lo schermo instagram ci mostra, e insieme ci nasconde.

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