È una Napoli impossibile quella che ha accolto il viandante durante lo scorso weekend. Una Napoli irriconoscibile, stravolta da un’afa asiatica, con il terreno delle vie principali che sembrava sul punto di crollare da tanta gente ci stava. Turisti essenzialmente, la solita storia.

C’è chi sta cercando un appartamento in affitto in città da mesi, solo perché è venuto a lavorare qui da altrove. Niente, tutti a profitto veloce, la solita solfa: l’Italia nuova disegnata unicamente per gli altri. Si avanza in Via Toledo ormai in stati alteratissimi, la vista traballa e vede solo poche cose: franchising di ogni tipo (il preferito? “Vesto Pazzo”), nei vicoli ancora regnano i drappi stinti e le strisce lunghe azzurre in parte di origine comunale e commerciale, già impossibili da non notare durante la festa dello scudetto (lontanissima ormai, e troppo organizzata a tavolino, a pensarci bene).

Qua e là – perché del centro centro stiamo parlando, non dell’intera area metropolitana, per fortuna – vedi ancora figure di quell’umanità che ti sei sempre aspettato da qui, i motorini con la gente dietro senza casco, vecchi travestiti che litigano speriamo non per finta.

La dimensione locale è diventata totalmente raddoppiata, triplicata, impossibile, ed è finita in un gorgo diciamo “hyperlocal” che nemmeno quel vecchio e bistrattato profeta di Jean Baudrillard avrebbe potuto immaginare.

Ah, parte di questa folla sta sciamando verso uno dei tre megashow, tutti sold-out, che Liberato ha tenuto in città nel weekend scorso, con la rosa che fa da suo simbolo piantata in mezzo a Piazza Plebiscito, e fanculo a chi gli vuole male. Forse è stato questo, ma il grosso l’ha fatto Marefuori, dove Me Staje Appennenn’ Amo è stata citata e suonata a nastro nella terza serie fino a far crescere all’impossibile i numeri di Spotify e i vocabolari col corpo di TikTok.

Morale: chi scrive è qui con la figlia di 12 anni che le loro canzoni le sa tutte e sta studiando napoletano per questo.

Nonostante l’internazionalità che ci sta(va) intorno lo show è intimo, interno, lacaniano. Ma ciclopico nelle dimensioni, con una band impeccabile tutta bella schierata, e tre schermi della madonna a rendere tutto luce e fuoco (le botte di fiamme che esplodono lungo il campo sono un tributo vesuviano a Iron Maiden e Rammstein, le cui magliette tarocche sono peraltro sulle bancherelle di mezza Napoli, e da mo’).

Brodo di coltura

Si diceva locale, non più ultra: sì, perché come sempre Napoli ha inghiottito e digerito l’operazione rendendola da aliena ad internalizzata, a perno centrale del meraviglioso panorama musicale della città, dove risuona egemone da ogni buco da almeno un anno.

Egemone esteticamente, per certi versi più di Geolier, almeno qui. Lo show entra nelle profondità di questa enorme biologia che è l’unica vera metropoli italiana, con enormi “proiezioni” di giochi cellulari, vetrini per batteri, gocce di contrasto che si allargano, clonazioni, ma anche close-up di quella che sembra lava, esperimenti di fisica nucleare, macro di osservazioni celesti (ricordiamo l’eccellente Istituto di Astronomia di Capodimonte, centro di genii veri e propri).

Come se le due letture fondamentali di questa estate (i saggi di Rovelli e Parisi, come si ricordava da queste parti) fossero parte di questa profondo brodo di cultura biotech dove stiamo tutto noi, uniti, disciolti.

Lo show è clamoroso, impeccabilmente umano con la voce dei Liberato (scriviamo così) in forma assoluta, tutto sfasciato nel completo non si sa se di Rick Owens o Balenciaga ma certo “alto”, perché questi ultimi sono stati centrali per lo stile DIY dei guaglioni degli scorsi anni e vanno omaggiati.

L’esplosione di fuochi d’artificio da festa popolare (coi controfiocchi: le grandi galassie, le strisce delle stelle, lo sbriciolio di luci scoppiettanti a colata, tutte le classiche figure degli ultimi anni) sigilla il rientro a casa, fuori dalla posizione “a cavallo” mirabilmente tenuta dalla band in tutti questi anni di culo quadrato separato e precisissimo (il calendario di tutti i “9 maggio” del passato, scandito da show a sorpresa e nuovi release).

La sceneggiata/danza tradizionale lasciata “ironicamente” a performer classici (da opera commissionata ad una Emma Dante nell’attiguo - e prestigioso, ci mancherebbe -Teatro San Carlo) pianta brutalmente sta rosa sul terreno cittadino, e non importa l’omaggio alla Nuova Compagnia di Canto Polare.

Non sgorgano più misteri, come quelli dei commuoventi e davvero liberi Thru Collective ad aprire - insieme al set bellissimo dei ricercatori di Napoli Segreta e anche a Calcutta che sale sul palco per fare 9 Maggio e chiuderla lì con questa baggianata.

Nel rendersi in qualche modo visibilissimo, e completamente chiaro, lo show è stato inaspettato, ecco. Nel cercare di capire le possibili direzioni del futuro immediato, ci sono pubblicazioni che si possono intercettare: il prezioso rapporto WGNS, sulle innovazioni 2025 in ambito STEPIC (che sta per Society Technology, Enviroment, Politics, Industry, Creativity).

Recita il rapporto nella sezione “Politics: beyond borders”: «Nel momento in cui spenderemo il nostro tempo dentro un cyberspazio senza confini, le geografie conteranno sempre meno. Vivremo nelle stesse città, ma in mondi differenti; esploreremo nuovi hubs metaculturali, guardando oltre i confini delle solite capitali culturali e musicali e della moda per scoprire talenti emergenti attraverso le reti delle arti locali e soprattutto delle microcomunità, sia che siano basate in mondi fisici oppure digitali.

Consideriamo anche come questo sentimento “hyperlocal” del consumatore sia qualcosa che sta diventando ampiamente percepito in numerosi mercati».

Esistono mondi iperlocali di vario tipo insomma. Quello delle microcomunità che si fanno i cazzi loro dentro mondi personali seppur basati -finora- dentro un territorio fisico è certamente il più interessante.

Con un balzo in avanti da centometrista di una volta, Andrea Amichetti editore della fondamentale guida quotidiana ai consumi culturali Zero, questo l’ha intuito da tempo, anzi dai tempi della pandemia. Quei famosi discorsi sulla città divisa in distretti con tutto a 15 minuti a piedi al massimo, e altre speculazioni messe giù durante il doppio internamento, lo hanno portato a fare un’indagine dettagliata di tutte le realtà culturali vive dei vari quartieri della città di Milano (e poi, piano piano Roma) fino a trasformare il “giornale” in uno ziggurat di affissioni lunghe mezzo chilometro, con facce lavori, musicisti scavati sul terreno, e a volte già noti.

E poi a mettere in piedi delle feste-sagre dei singoli quartieri nel giardino della Triennale di Milano, con esiti spesso volutamente esilaranti. E, per finire, un festivalone lo scorso settembre che racchiudeva il best dentro lo spazio più impensabile: l’allucinante nuovo edificio geometrico del Comune in zona Corvetto, diventato per due giorni lo scorso settembre un’astronave matta di sole luci rosse.

Band mai sentite

Quest’anno la dimensione è aumentata e impone di botta l’ “Hyperlocal Festival” di questo weekend come un formato mai visto e mozzafiato, fin da subito potentissimo dentro il panorama esistente sulla piazza.

Una line-up di band mai sentite provenienti non solo da tutti i neodistretti milanesi, ma anche da Monaco di Baviera, da Marsiglia, da radio di varie direzioni, inclusa la londinese NTS, unico acronimo distinguibile in una felice materia oscura nella quale ficcare le mani per scoprire pepite. Impossibile elencare l’esagerato rosario delle sigle, cui fa da contrasto lisergico il lato bar, diciamo, curato dai luoghi più chic della città, dal Bar Basso a Gattullo a Cucchi.

Ne citiamo solo poche: il set di Dona Valentina (l’etichetta-ponte tra Milano e il Sudamerica del post-club latinoamericano), la cara vecchia Pescheria ex Tropicantesimo ex Pigneto/Roma, l’hyperpop della scena partenopea del Vomero, con Aaron Rumore e specchiopaura, il postrave di Metaphore Collective dalle zone scricchiolanti di Marsiglia.

Oltre a decine di performer a far bordello dal mattino alla sera, «l’idea di fondo è quella di una geografia urbana che sta subendo degli stretch, delle deformazioni senza strappi, per cui Milano possa a tratti non sembrare Milano ma un’altra città, e così Roma e Bologna e tutte le altre», scrivono quelli di Zero per darci delle dritte.

«Pensiamo che ci sia insomma all’opera una moltitudine brulicante, gruppi e collettivi di maghi e precognitori capaci di costruire ponti con altri luoghi e giustapporli tra loro, sfornando ed inventando in continuazione immagini chimeriche che portano nomi, connotati e atmosfere di più città, più generi, più stili assieme. Sono coloro che a nostro parere fanno quel lavoro da alchimisti: aprono ponti, costruiscono storie e mescolano, reinventano una città attraverso i suoi luoghi.

Viene quasi da pensare che sia una qualche necessità, la risposta a un abitare che non riesce più a contenere e soddisfare l’infinitudine di sfaccettature,di maniere e valori che la solcano oggi. La città è un accrocchio di cui ancora, tutto sommato, si sa poco».

Liberato in qualche modo ci fa capire di essere arrivato (a capirlo, ovvero a capo A, alla prima casella del gioco dell’oca, seppur scintillante), quelli di ‘Hyperlocal/Zero’ giustamente, invece, scombinano le carte. Come di fatto sono impazzite nella realtà. Sto scrivendo tutto questo su un Flixbus che è partito alle 22.15 da Milano Rogoredo e arriverà a Lanciano in Abruzzo alle 7.05. Non c’era altra possibilità. L’iperlocale è qui e ora.

L’Hyperlocal festival è il 23 e 24 febbraio a Milano, in via Sile 8

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