È prevedibile cosa vi risponderà l’oste se gli chiedete conto della qualità del suo vino. Ma solidarizzo con la sua frustrazione per il fatto che quasi nessuno solleciti la sua parlantina chiedendogli altro, per esempio a proposito di vitigno, annata o produttore, di gradazione alcolica, processo di vinificazione, numero di bottiglie prodotte e vendute. Sta di fatto che non dovrete aspettarvi da me un giudizio sul libro di cui si parla in questo articolo perché in un certo senso – stando almeno all’adagio – sarei l’oste. Anche se appunto, sarei più il vignaiolo o, chissà, l’enologo. Nell’inaugurare, in pieno boom dell’autofiction, la pratica del suo più periglioso effetto collaterale, l’auto-recensione, non vi dirò dunque – per dimostrabile difetto di credibilità – che i saggi di questa raccolta di John Updike sono buoni, o sinceri come ci si aspetta da un quartino di rosso da tavola. Ma vi racconterò perché ho deciso di pubblicarli con la mia casa editrice. Perché, in fin dei conti, Sur ha vendemmiato, pigiato, fatto fermentare, affinato, imbottigliato, etichettato e infine mandato qualche litro di Armoniose bugie proprio all’osteria che siete soliti frequentare.

John Updike, di cui tanti conoscono il faccione simpatico che ricorda – forse a me soltanto, me ne rendo conto – quello di Corrado Augias ma pochissimi o addirittura nessuno può davvero aver letto l’intera bibliografia (verosimilmente nemmeno lui stesso), era sempre stato un mio pallino editoriale, anche se della sua produzione sconfinata – si contano oltre settanta titoli – ho letto (in vino veritas) una parte direi esigua. I suoi romanzi più celebrati, la serie di Coniglio, passati in Italia di editore in editore sono da qualche anno approdati da Einaudi Stile Libero; ma altri titoli sono attualmente disponibili presso Guanda, Tea e Clichy.

Una disgressione su Bellow

Permettetemi una di quelle digressioni che sono solito intavolare quando di rosso sincero ne ho bevuto oltre il dovuto. Un altro mio pallino da tanti anni era stato Saul Bellow, la cui opera, grazie a una produzione ben più contenuta e a un maggior numero di letture da parte mia, conosco percentualmente forse meglio di quella di Updike. Qualche anno fa, quando mi fu chiarito dall’agente letterario di Saul Bellow che – seppure in quel momento non un solo suo titolo fosse disponibile sul mercato italiano – mi potevo tranquillamente scordare che dopo decenni di sodalizio con Mondadori avrebbe concesso a me la possibilità di acquisire un romanzo dell’autore, ottenni almeno di poter pubblicare una sua raccolta di saggi, uscita poi nel 2017 a cura di Luca Briasco e con il titolo, anch’esso molto bellow, Troppe cose a cui pensare. Oltre ai suoi meriti intrinseci, il libro ha avuto anche quello indiretto e involontario di rendere di nuovo disponibile (immagino su sollecitazione di quell’agente letterario) l’opera del premio Nobel 1976, e così in soli tre anni ben quindici opere di Bellow sono state ristampate nei nuovi Oscar, quelli con la cover dal taglio sbarazzino.

Dopo che l’uscita della raccolta di saggi di Saul Bellow era stata accolta con il prevedibile «successo di critica», accompagnato da un altrettanto prevedibile venduto da happy few (d’altro canto, un dato pur commercialmente accettabile per un piccolo editore non gli renderà mai del tutto moralmente accettabile che non ci sia un esemplare sul comodino di ogni appartamento della nazione), in casa editrice abbiamo deciso che ci sarebbe piaciuto proseguire il percorso (come si fa spesso, immaginando, o illudendosi, esista davvero un lettore-arianna che questo filo riesca a seguirlo, nello sconfinato dedalo della produzione editoriale) con un libro analogo. E dunque, se qualche anno fa avevamo chiesto a Luca Briasco di selezionare i testi critici e teorici di Bellow da una più ampia selezione già esistente nel mercato statunitense, questa volta abbiamo commissionato la scelta a Giulio D’Antona, a cui è toccato il ben più ingrato compito di scandagliare la vastissima produzione saggistica di Updike, per distillarne queste Armoniose bugie. Curiosamente, delle circa dodicimila pagine del corpus saggistico updikiano, da noi era stato tradotto solo un libro sul golf (lo sport – non l’auto tedesca, né il maglione – preferito dall’autore): circa duecento pagine ossia, per gli amanti delle percentuali – e delle incidentali – come me, l’uno e sessantasei periodico per cento della produzione critica di Updike, di cui pertanto si sentiva, almeno fra noi, in casa editrice, la necessità di offrire ai lettori italiani un saggio (pardon) appena più cospicuo.

Updike ha sempre scritto saggistica, soprattutto recensioni. Il suo necrologio sul Los Angeles Times ricorda come avesse recensito «pressoché ogni singolo grande autore del XIX e XX secolo», e sicuramente non si è limitato a recensire i grandi; cosicché sappiamo, per averla vissuta di rimando ma da vicino, che la selezione del curatore è stata una missione impervia.

Alternanza

Ci è piaciuto che D’Antona abbia scelto di alternare una parte di recensioni in cui vediamo Updike confrontarsi coi suoi contemporanei (Calvino, Cheever, Carver, ma anche autori con altre iniziali) contribuendo se mai a crearne la fortuna critica a una in cui se la vede coi maestri (Melville, Fitzgerald, Kafka, Thoreau), e che queste a loro volta si alternino a saggi di argomento più ampio, di cui vi offro appena un sorso da assaggiare mentre vi mostro l’etichetta: l’immortale interrogativo «Perché scrivere?» («Un modo adeguato di trattare la questione sarebbe quello di chiedere a mia volta: Perché no?»), una teoria sull’umorismo in letteratura («Il riso è alleato dello stupore che sospende il giudizio sul mondo; forse una delle ragioni per cui ridiamo così tanto nell’infanzia è che da bambini molte cose ci appaiano inaspettate e nuove, e può darsi che la narrativa risvegli proprio quel riso restituendoci un mondo più limpido di come lo vedevamo prima»), riflessioni su religione e letteratura («La religione ha dato vita alla letteratura greca ed è morta fra le sue braccia»), immaginario artistico («L’immaginazione creativa, per come io la concepisco, è un parassita assoluto del mondo»), vita e scrittura («Mia moglie, intesa come personaggio, divenne sempre più loquace e affascinante mentre il nostro matrimonio diventava sempre più carico di risentimento e tensioni. Ero immerso fino alla cintola nelle vicende di vicini e amici, bambini e animali domestici; spettegolavo, mi ubriacavo, giocavo a golf, andavo in chiesa.

Solo nella nostra lingua

Era vita e la plasmavo, ne rifinivo strani frammenti che poi spedivo in buste marroncine»), fedeltà al vero («Pur essendo un bugiardo patentato, lo scrittore di narrativa è paradossalmente ossessionato da ciò che è vero – ciò che si percepisce come vero, ciò che suona vero nella montatura allestita alla scrivania»), fino a un vademecum su come si dovrebbe scrivere una recensione (che indubitabilmente devo aver smarrito prima di mettermi a vergare queste pallide righe). Avrete capito insomma che Updike tratta argomenti enormi se non addirittura eterni e lo fa col suo incomparabile tono lieve, dietro cui cela abilmente una sapienza espositiva e una profondità argomentativa non comuni.

Se Updike, come ha asserito perentorio Philip Roth, è «il più grande uomo di lettere del nostro tempo» noi, con in mente l’imperituro slogan del pennello Cinghiale, non potevamo che affidarlo alle mani espertissime del traduttore ideale per questo libro, che la casa editrice ha individuato in Tommaso Pincio: ce ne sarà grato chi leggerà il libro in italiano.

Ah – per dirla col tenente Colombo – dimenticavo: non so se sono stato abbastanza chiaro, ma questo libro esiste solo nella nostra lingua. Fossi in voi, ne approfitterei. Che altro dire? Armoniose bugie è un blend di ben quarantasette saggi/uvaggi, dal cui mescolarsi non può che risultare uno Zibaldone dei nostri tempi: fermo ma anche amabile, maturo e al tempo stesso morbido, robusto eppure rotondo (a dispetto della sua sembianza rettangolare). Vogliamo metterci fruttato? Ma sì! Se no poi dicono che siamo provinciali. Si accompagna a piatti di carne ma è adatto anche per chi si sente alla frutta. L’ideale per riprendersi dopo un romanzo indigesto.

Ecco dunque com’è il mio vino. Ve ne verso un po’?

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