Mentre i fedeli di Harmony, minuscola città nel Sud degli Stati, sono raccolti in chiesa, l’adolescente Iggy rovescia della benzina e accende un fiammifero: perdono la vita in venticinque, lui viene arrestato.

Vent’anni dopo, ad Harmony si continua a parlare di quella domenica ed è dalla stessa città che si leva il coro che racconta questa storia. Un coro di uomini e donne che errano per una terra desolata e intanto s’interrogano su ciò che è stato galleggiando in quel che è, tra le conseguenze di una tragedia scolpita nel dolore.

Iggy mi ricorda quei ragazzi che compiono delle stragi nei licei statunitensi – cosiddette mass shooting.

Ho ideato il romanzo nel 2015, anno in cui ce ne sono state parecchie, di stragi del genere: quindi sì, deve aver respirato la loro aria – di quei ragazzi.

Lei, però, più che concentrarsi sul carnefice si focalizza su chi ha attorno.

A interessarmi era quel che accade quando le telecamere vanno via, ciò che succede alle persone che sono state investite dalla tragedia.

Dal romanzo emerge che s’innesca una sorta di effetto domino.

È naturale sia così. La domanda che mi faccio è: quali effetti ha un evento così traumatico sull’esistenza di chi gravita attorno alle persone che commettono crimini del genere?

La risposta?

La vita procede per vie sorprendenti, nel bene o nel male.

Però Iggy, il carnefice, ha per sé un capitolo piuttosto corposo.

Perché tutto è partito da lui: sentivo nitidamente la sua voce, e non c’era verso che riuscissi a ignorarlo. Mi parlava, insisteva, voleva raccontarmi la sua storia.

A differenza della maggior parte dei ragazzi che commettono le stragi nelle scuole, Iggy non sceglie una pistola o un fucile, ma il fuoco.

Per due ragioni. Anzitutto perché c’è qualcosa d’interessante nel fuoco – intendo da un punto di vista simbolico. Il fuoco consuma tutto, non c’è niente che esca intatto dalle fiamme. E poi perché non volevo che i lettori si concentrassero sull’arma. Gli avessi messo in mano una pistola, molti avrebbero pensato che il mio fosse un manifesto politico, e non lo è. Non mi fraintenda, sono contrario alla politica statunitense sulle armi, penso sia folle che si possa comprare una pistola con la facilità con cui compra una mela. Però volevo parlare di altro.

Qual è il filo rosso che lega Iggy a questi ragazzi?

Il senso di alienazione, la solitudine, l’isolamento, il sentirsi diversi. Sono molti a soffrirne durante l’adolescenza e una rete di aiuto, o di protezione, non c’è.

Il senso di alienazione e la solitudine di cui parla credo siano universali: si tratta di qualcosa che tutti, chi più e chi meno, in adolescenza ha avvertito. Penso ai paesi del nord Europa, ad esempio, dove c’è un numero altissimo di adolescenti che si suicida. Negli Stati Uniti, però, questi ragazzi vogliono tirare giù con loro quanti più coetanei riescono a uccidere.

Sì, difatti ciò che mi più mi colpisce è che non cercano di fuggire quando fanno cose del genere: di solito intendono uccidersi, poi, o farsi uccidere dalla polizia. A loro di vivere o morire non importa: vogliono ricreare nel mondo l’inferno in cui abitano.

Iggy si dà a fuoco in una chiesa. Perché?

In questo romanzo volevo anche raccontare il sud degli Stati Uniti, dove sono nato e cresciuto, e lì la religione è importantissima, molto presente nel tessuto delle comunità. Ecco, volevo che a essere distrutto fosse un luogo fondamentale per Harmony, la cittadina della storia.

Lei è cresciuto cattolico?

Protestante.

In una famiglia praticante?

Sì, certo. Andavo pure ai circoli di preghiera, pensi.

E poi?

Non è successo niente di eccezionale, nessun punto di rottura. Già da bambino non credevo. Quando ero piccolo, mi spiegarono cosa fosse il Paradiso, cosa si dovesse fare per finirci, e la situazione non mi convinceva già allora.

La città in cui è cresciuto somiglia a quella del suo romanzo, Harmony?

Sì. Cinquemila anime, molto religiosa, minuscola, tutti conoscevano tutti.

Com’è stato?

Noiosissimo. Fin da piccolo sognavo di andarmene, lasciare il Sud e trasferirmi in una grande città piena di vita.

Lo ha fatto?

Dopo l’università: ho vissuto prima a Los Angeles e poi a New York. Ma il Sud mi è rimasto incastrato dentro, oggi abbiamo un rapporto di amore e odio.

Si ricorda di un ragazzino che, negli anni della sua adolescenza al sud, era marginalizzato come Iggy?

Sì, certo. Ero io.

Lei, però, non si è dato alle fiamme in una chiesa.

Perché ho avuto la fortuna di trovare delle vie di fuga. I libri e i film mi hanno aiutato a capire che c’erano posti diversi, che il mondo era più grande e complesso di ciò che vedevo attorno a me nel Sud. Sapere che ci sono opzioni è fondamentale, altrimenti ci sentiamo in gabbia e ci abbandoniamo alla rabbia.

«Il mio essere nessuno e il suo essere qualcuno sono entrati in collisione». Lo ha detto Marc David Chapman, assassino di John Lennon: mi ha ricordato il suo Iggy.

Sì, credo che Iggy si senta così. Lui vive nella sua realtà personale, come tutti, ed è convinto, come tutti, che la propria visione del mondo sia la più giusta; non quella corretta, ma giusta. Se a questo aggiunge il senso di alienazione di cui parlavamo prima, il suo sentirsi respinto dal mondo, credo che il risultato sia la violenza di cui fa uso nel romanzo.

Leggendo delle direzioni che prendono le vite dei suoi protagonisti dopo ciò che accade in chiesa, pare che l’esistenza sia dettata dal caos: a chiunque può succede qualunque cosa.

La vita funziona così: prendi una decisione, imbocchi una via, ma poi ti capita qualcosa che sul momento sembra esser priva d’importanza, e le carte in tavola si mescolano in modo caotico.

Le è capitato?

Certo, più volte mi sono trovato in quel posto, in quell’altro facendo esperienza di qualcosa che non avrei neanche sfiorato, se solo fossi stato altrove.

Una in particolare?

Avevo tredici anni, vivevo ancora nella cittadina del sud in cui sono nato ed era inverno. All’epoca lì nevicava – oggi non più, per via della crisi climatica – e noi ragazzini, dopo la scuola, facevamo battaglie di palle di neve. Ecco, stavamo giocando quando abbiamo sentito un rumore strano, dopo pochi istante abbiamo visto un’auto traversare la strada sbandando, a gran velocità e chiaramente fuori controllo: stava scivolando sul ghiaccio. La macchina si è schiantata contro uno degli alberi davanti la scuola, io e alcuni miei compagni siamo corsi per cercare di aiutare chi ci fosse dentro, ma non ci siamo riusciti. A guidare era una donna anziana che non siamo stati in grado di salvare: abbiamo cercato in ogni modo di tirarla fuori dalla macchina, ma il muso dell’auto era accartocciato e la donna incastrata. Alla fine, è morta davanti a noi, lì nella macchina.

Mi dispiace.

Tante volte mi sono chiesto cosa sarei diventato, chi sarei oggi se quel giorno non fossi stato a scuola. Vede? È il caos a dettare le nostre esistenze.

Cerca di dare un senso ad accadimenti del genere?

Non più. Vedere l’assurdità della vita, come ci ha insegnato a fare Camus, mi ha molto aiutato: farlo è liberatorio, ci sgrava del peso di cercare continuamente un significato a tutto quello che ci succede.

Torniamo al romanzo. I suoi personaggi si spostano da un luogo all’altro in apparenza senza alcuna meta: vagano. Cosa cercano?

Una famiglia, conforto, stabilità, essere loro stessi senza sentirsi perseguitati dall’incubo che chiamiamo realtà. Un posto che possano definire casa.

Esiste un luogo del genere?

Sì, ma la ricerca è così lunga ed estenuante che presto perdiamo il senso stesso del viaggio, specie perché tendiamo a romanticizzare quel che non abbiamo, e questo porta a una continua insoddisfazione.

Iggy è bisessuale. Perché questa scelta?

Sono affascinato all’ambiguità. Non so se lo definirei bisessuale, però. È vero, va a letto sia con Cleo sia con Paul, i suoi migliori amici, ma quella che c’è tra loro è un’attrazione più mentale che fisica: si riconoscono gli uni negli altri e amano il senso di profonda intimità che li lega.

La mia ultima domanda la faccio a tutti. Immagini di avere ottant’anni e che sia una domenica mattina: con chi è, cosa fa, dov’è?

Be’, essendo domenica mattina probabilmente sono sotto acidi (ride, ndr). No, scherzo: sto passeggiando per Manhattan, con me c’è il mio cane e ho appena preso un caffè. Cammino finché le idee non si sono messe assieme, formando materiale narrativo, poi torno a casa, dove c’è mia moglie che legge il giornale, e mi metto a scrivere.

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