Dice lo stereotipo che parlare e scrivere di morte equivalga a interpretare il ruolo del cosiddetto “dj svuotapista” a una festa gestita male. Le persone si allontanano, e tu non puoi certo lamentarti che lo abbiano fatto.

Oppure, i ragionamenti formulati passano in secondo piano, in quanto subito depotenziati da una duplice interpretazione tesa a mettere quanto più rapidamente possibile una distanza tra sé e il pensiero della mortalità.

Funziona più o meno come segue.

Quando nell’opera di una persona che di mestiere scrive, narra, elabora, ragiona, problematizza, emerge la morte, il tema va reso innocuo correndo ad analizzare la biografia di chi ha osato parlarne. Infine, si attribuirà all’approccio a questa bizzarra area tematica un carattere epifanico o profetico.

Epifanico e profetico significa miracoloso, eccezionale, quindi non davvero aderente con la concreta realtà delle nostre vite.

Se hai una malattia grave e scrivi o parli di morte, è perché la tua esperienza personale ha generato un trauma tale da indurti a ricevere una sorta di illuminazione. Solo in virtù di quest’ultima può esistere la disposizione d’animo atta a occuparsi del più spinoso e sgradevole tra i temi

Se, invece, hai scritto di morte e mortalità in un paragrafo di tre righe contenuto all’interno di una più ampia opera che trattava di tutt’altro circa venticinque anni fa, e poi ti è capitato di morire, allora si tratta di una profezia. È chiaro che hai presentito l’ineluttabile, hai inconsapevolmente vaticinato, qualcosa di oscuro si è mosso dentro di te al punto da rendere irresistibile quel tema che, lo ricordiamo, è spinoso e sgradevole.

Ne ha scritto sempre

Michela Murgia, di fronte a tutto questo, per l’ennesima volta disinnesca il meccanismo prima ancora che si palesi all’orizzonte il rischio della sua attivazione.

Perché ne ha scritto sempre. Anche quando scriveva di altro.

Disinnesca anche lo stereotipo di cui all’inizio di queste righe. Dimostra che le persone non si allontanano davvero sentendo parlare di morte, non sempre, non necessariamente. In fondo, in realtà, nessuno vuole scappare di fronte al discorso sulla morte se questo – come dovrebbe – è integrato con quello sulla vita.

Da Accabadora, a Ave Mary, da Chirù a Tre ciotole, dagli interventi pubblici alle dichiarazioni fino alla comunicazione social, in Murgia la narrazione tanatologica non è mai stata un innesto posticcio, né un espediente narrativo fine a se stesso. Nella sua opera, lo scrivere e il parlare di morte si inseriscono in un percorso intellettuale che non ha mai perso di vista l’organicità delle dimensioni dell’esistenza.

Ne Il grande libro della morte (Il Saggiatore, 2021), Ines Testoni scrive: «Dal secondo dopoguerra, l’occidente ha costruito progressivamente uno scenario capace di eclissare la presenza della morte come evento concreto, per allestirne la rappresentazione all’interno di un immaginario funzionale alla rimozione collettiva».

In Ave Mary. E la chiesa inventò la donna (Einaudi, 2011) Murgia, già dieci anni prima, aggiunge una tessera fondamentale nell’analisi della rimozione della mortalità. Nel primo capitolo conferma infatti come

«Il sedicente tabù della morte» di cui scrive Testoni «è tale solamente per l’epoca moderna».

Ma se ne osserviamo il carattere sessuato, ci troveremo di fronte a differenze significative nella «percezione della morte maschile e femminile». Dall'epoca classica alla rivoluzione segnata dall'avvento del cristianesimo passiamo dalla donna in attesa dell'eroe, non agente, che in caso di abbandono dà fuoco a se stessa su una pira allestita sul letto nuziale, alla donna a cui non è proprio concesso di morire. La Mater Dolorosa ai piedi della croce che assiste alla morte dell'altro (dell'uomo). La madonna dormiente.

La Maria che non muore

Scrive Murgia: «La donna ai piedi della croce non è solo l’eterna testimone della morte altrui. Una Madonna che non conosce la propria fine offre alle donne credenti un patto di mimesi insostenibile, perché stipulato con un soggetto simbolico dal corpo intangibile, sottratto al tempo e in definitiva privo di limite. Se la “Maria che non muore” rappresenta la perfezione a cui non giungeremo mai, se è lei – l’Eternamente giovane – l’obiettivo a cui tendere, significa che in questo gioco siamo destinate a perdere comunque, a meno di non ricorrere a espedienti per ridurre la distanza dal modello».

Quando tra le grandi voci internazionali, a ragionare di morte fuori dai confini accademici avevamo, pressoché solitari, Joan Didion (L’anno del pensiero magico, 2005; Blue nights, 2011) e Julian Barnes (Niente paura, 2008) Murgia si apprestava a scrivere in un saggio narrativo di larga diffusione che la rimozione della morte è anche una questione di discriminazione di genere.

Come tale va affrontata e non ulteriormente rimossa o dimenticata, perché anche in quel territorio si svolge un esercizio di potere in cui una parte è subalterna all’altra.

Ma ancora una volta, parlare di morte in Murgia corrisponde sempre a delineare una visione complessiva in cui ogni elemento sfuma nell'altro e all'altro si intreccia.

Dunque parlare di genitorialità è parlare di classe e parlare di morte è parlare di genitorialità e parlare di lavoro è parlare di nascita e parlare di nascita è parlare di morte e parlare di morte è parlare di vita e tutto questo fa la summa delle nostre esistenze, e ognuna di queste contiene istanze politiche, sociali, civili, poetiche.

Lo scrive in Chirù (Einaudi, 2015): «Non importa che siano i soli per cui valga la pena iniziare una conversazione: se non si vuole rischiare di diventare sgradevoli con persone che non si conoscono non si parla di sesso né di soldi, di religione, di politica e di morte», e in modo non sotteso suggerendo che questi sono i temi che fanno la vita, che nessuno è slegato dall'altro, e che per questo possono spaventare. Uno in particolare, più di altri.

Lo scrive in Accabadora, narrando di eutanasia e filiazione d’anima attraverso le vicende di Tizia Bonaria Urrai e Maria Listru: «Sono maledette solo la morte e la nascita consumate in solitudine», «si nasce con l’aiuto di qualcuno, si muore con l’aiuto di qualcuno», «non c’è nessun vivo che arrivi al suo giorno senza aver avuto padri e madri in ogni angolo di strada».

Violenza

Qui, nascita e vita e morte non sono scisse e non sono contrapposte. Sono l’autodeterminazione e il rispetto della libertà altrui a generare equilibrio. In mancanza di questi, si genera la frattura.

Murgia scrive e narra e dice che nessuna risposta a nessuna questione, a nessun problema, è esaustiva se non prevede di essere messa in atto in una dimensione sociale, collettiva.

Che non esiste separazione tra le dimensioni, la separazione è un’allucinazione che genera nevrosi, frustrazione, violenza. Che non c’è limite alla genitorialità intesa come presa in carico di responsabilità e che inevitabilmente anche questo c’entra con la morte, c’entrando con la vita.

Suggerisce pure che nessuno è più portato a cercare di mettere un limite alla libertà altrui (in morte, in nascita, in vita, in espressione famigliare) come chi nega la morte. Perché nessuno è più violento di chi pretende che l’altro non possa morire mai, anche se vilipeso, torturato, seviziato, ucciso.

Collega in modo diretto la negazione della mortalità femminile alla legittimazione del sopruso sul femminile. Di fatto, alla legittimazione del femminicidio. Perché, in fondo, chi non muore non è interamente umano.

Indica che impedire la scelta nel fine vita equivale a scegliere in modo cosciente e ponderato di abdicare al principio di democrazia per essere dittatori del corpo altrui.

Murgia non fa che dirci che il noto adagio “quando si muore si muore soli” alla luce di questo quadro d’insieme, d’un tratto sfuma, riducendosi a scusa per non fare la propria parte.


Ginevra Lamberti dirà questo testo domenica 10 dicembre nell’ambito di un evento Dedicato a Michela Murgia e la lettura, la moda, la politica, il femminismo e la morte con Miguel Gotor, Simonetta Bitasi, Maria Luisa Frisa, Djarah Kan, Lorenzo Gasparrini. Lettura di un testo inedito di Valentina Melis.

A cura di Più libri più liberi Auditorium, ore 18.30

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