Cosa accade se Mr. Darcy diventa un femminicida?  Per una rispettabile porzione di immaginario romantico sedimentato trattasi di trauma epocale. Si ha un bel dire che appiattire un attore al suo ruolo più iconico è segno di pigrizia mentale: il Colin Firth-Fitzwilliam Darcy consacrato dalla miniserie di culto Bbc Pride and Prejudice, datata 1995 ma virtualmente intramontabile, si è installato con tale prepotenza nel personaggio austeniano da meritare le ironiche rivisitazioni sentimentali di Bridget Jones nelle sue tre avventure su schermo.

Se il primo chick lit di Helen Fielding giocava esplicitamente di sponda con Orgoglio e pregiudizio, il riciclaggio del Darcy televisivo è risultato strategico per il successo delle tre trasposizioni cinematografiche dei romanzi. La single Renée Zellweger era lontana anni luce dalle ragazze Bennett e non poteva che appartenere al XX secolo. Darcy no: era figlio dell’Inghilterra di primo Ottocento e a quei modi, a quel fascino austero doveva restare ancorato. Di fatto, per le platee, Colin Firth ha navigato per anni all’ombra di Pemberley e degli handicap di comunicazione del suo facoltoso quanto irresistibile proprietario.

La vicenda Peterson

Chi pensa all’attore britannico come al protagonista Oscar de Il discorso del re o per la Coppa Volpi a Venezia di A single man? Praticamente nessuno. Certi ruoli ti restano incollati addosso come la carta moschicida. Il successo popolare di alcuni prodotti è una trappola senza uscita.

Dopo aver disertato per oltre un ventennio la serialità, Firth si è calato per Hbo in un personaggio di repulsiva doppiezza, il Michael Peterson di The Staircase-Una morte sospetta, che da noi è appena approdata su Sky e Now. 

The Staircase, firmato da Antonio Campos, è un caso di fiction riciclata da documentario, pratica che furoreggia tra i cervelloni alla guida dei nostri trastulli dal divano di casa. La base – autentica – è la travagliata vicenda giudiziaria di Peterson, romanziere e aspirante politico del North Carolina che nel 2001 è stato accusato dell’omicidio della consorte Kathleen, rinvenuta cadavere sulle scale di casa.

L’enorme richiamo mediatico della vicenda ha persuaso il regista francese Jean-Xavier de Lestrade a dedicare al processo, alla tribù familiare dei Peterson e agli innumerevoli strascichi successivi, tra il 2004 e il 2018,  una serie documentaristica fiume in tre stagioni distribuita da Netflix, titolo originale Soupcons, poi anglicizzato in Suspicions, sottotitolo Death on the Staircase.

Gli otto episodi di Campos intrecciano al plot noir della nuda cronaca il making del documentario e i suoi protagonisti. Perché caso vuole che la montatrice del documentario, Sophie Brunet,  abbia avuto, nel corso del tempo, un affaire sentimentale col supposto uxoricida.

Basta condire e romanzare questo sviluppo ed ecco un magnifico ruolo per Juliette Binoche, nome eccellente che aggiunge prestigio di casting all’operazione. In controluce, la neverending story giudiziaria consente di inoltrarsi nei meandri della casistica legale statunitense, che comprendono anche sistematiche collusioni dell’Fbi con le procure. Le porte del carcere finiranno per aprirsi, per Peterson, dopo lo smascheramento di uno dei principali teste dell’accusa, l’agente  assegnato al caso, Duane Deaver, che aveva reso falsa testimonianza, e dopo la scelta finale di patteggiare i termini di condanna, in base al molto controverso Alford Pea.

Materia soporifera, se il courtroom movie non è esattamente il vostro genere di elezione. Ma le piattaforme stanno raschiando il fondo del barile, e la meta serie è la nuova frontiera da esplorare. In questo caso consente a Campos regista – e in parte sceneggiatore – di analizzare le tecniche con cui il genere true crime può ricostruire artificiosamente, manipolare e distorcere  i fatti reali. Siamo in pieno loop autoreferenziale: il target privilegiato di The Staircase è il medesimo pubblico che è rimasto saldamente agganciato a tappe, per anni, al documentario di Jean-Xavier de Lestrade.

La gerarchia dei disvalori

Per il profano invece la vera e unica scintilla di interesse nasce da Mr. Darcy. Perché Colin Firth non se lo scrolla di dosso. E probabilmente perché la signora defunta ha le sembianze di Toni Collette, così dilagante nell’ultima stagione seriale made in Usa che il binge-watcher professionista tifa per l’eliminazione fisica. La rivincita delle bruttine stagionate dà sempre soddisfazione, ma quando è troppo è troppo.

È una fortuna che Harrison Ford, primo opzionato per il ruolo di Michael Peterson, abbia dato forfait. Avrebbe portato con sé, metaforicamente, il cappellaccio di Indiana Jones. Con Firth viceversa il femminicidio – che di verità o montatura si tratti – diventa una questione secondaria. Paradossale ma vero.

Il crimine più efferato di Peterson – nella versione fiction della vicenda – consiste nell’edificio di ipocrisia che codifica la sua immagine pubblica. L’impalcatura da famiglia patriarcale modello, dotata di cinque figli variamente acquisiti in precedenza e cementata da una ritualità altamente edificante, si sgretola passo dopo passo nel corso degli otto episodi.

Ma è l’aplomb di Darcy – così soave, così britannico – a rendere il percorso intrigante. È un castello di bugie a scatole cinesi, fatto di glorie belliche usurpate, di sfruttamento seriale delle consorti, di trame oscure per allontanare le figlie “difficili” e di omosessualità clandestina. Il Peterson di Firth è quel tipo di gay mascherato che considera il coming out una vergogna sociale. Da spettatore femmina, ti prepari a odiare un femminicida e scopri di detestare un ipocrita: cambia l’ordine di priorità.

È come se la gerarchia di disvalori di Orgoglio e pregiudizio avesse silenziosamente pedinato Darcy fino a Durham, North Carolina. Come per Nostra Signora Jane A., è l’ipocrisia il peccato capitale.

Gli strascichi polemici che hanno accompagnato l’uscita della serie Hbo in America prescindono, a loro volta, dalla questione femminicidio. Michael Peterson grida al tradimento ma in sostanza lamenta che le memorie di carcere, narrate nell’inevitabile libro di sua mano, Behind the Staircase, non gli siano state retribuite.

C’è una querelle in corso sul compenso percepito dal documentarista francese per “vendere” la storia a Campos. Tutto banalmente ordinario e banalmente bizzarro. Ma in questa stagione asfittica sia per il grande sia per il piccolo schermo è l’insondabile ambiguità di Colin Firth a lasciare il segno. Sono le stesse doti che ne hanno fatto l’incarnazione ideale del più spigoloso principe azzurro mai concepito dalla letteratura. E sono doti che hanno molto a che fare con l’understatement dell’uomo. Ricordo ancora il suo resoconto minimalista, in un italiano quasi perfetto, del piccolo film che aveva appena girato su un sovrano affetto da balbuzie, un retroscena minore della Grande Storia. Una quisquilia, infatti: da Oscar.

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