Senza preamboli.

«Ritratto del mio stupratore. Perché anche a me in fondo sembra più interessante quello che succede nella testa del carnefice», comincia così il romanzo di Neige Sinno, Triste tigre, e continua «Con il carnefice invece, è un’altra cosa. Essere solo in una stanza con una bambina di sette anni, avere un’erezione al pensiero di quello che sta per farle. Pronunciare parole che indurranno quella bambina ad avvicinarsi, mettere il proprio sesso in erezione nella bocca della bambina, fare in modo che la spalanchi bene. Questo sì che è davvero affascinante. Va al di là della comprensione».

Perché l’autrice ha scelto questo termine, affascinante? Qualche pagina più avanti si chiede, «Che cosa ci affascina dei criminali, dei mostri? Pensiamo che loro abbiano elementi di risposta su uno dei maggiori enigmi dell’esistenza: il male». Il male su cui si interroga Neige Sinno è quello che colpisce i bambini e le bambine vittime di incesto e di stupro all’interno di quel nucleo che dovrebbe proteggerli, la famiglia. Dai sette ai quattordici anni viene abusata dal patrigno, damaged for life, perché questo è ciò che accade a lei e a tutte le altre vittime, un danno perenne che ti marchia per tutta la vita, «Rovinati per sempre. Rovinati, rovinate, circondati da abissi».

Il labirinto infernale

A 21 anni trova il coraggio di denunciare l’uomo che sarà processato e condannato a nove anni di carcere (ne sconterà 5 per buona condotta) ma è soltanto 30 anni dopo che riuscirà a scriverne. Il libro è potente, dirompente, lucido e sfaccettato come un diamante. Abbaglia, offusca, illumina, interroga, costringe chi legge a entrare in quel cono d’ombra, in quel labirinto infernale, e esplorare il baratro. È come se l’autrice si fosse messa a smontare l’ingranaggio di una bomba per capirne il funzionamento, dopo che la bomba è esplosa.

«Diceva di amarmi. Diceva che era per poter esprimere quell’amore che mi faceva quello che mi faceva, diceva che il suo desiderio più grande era che io ricambiassi il suo amore». Ecco la trappola che tende il pedofilo, rovesciando la logica e trasformando l’intera esistenza in un’esperienza atroce e assurda. Perché non è certamente di amore che si tratta, bensì di potere, un potere assoluto sull’altro; il predatore sessuale non cerca tanto il piacere fisico ma la dominazione che è «una forma di sottomissione che intacca le fondamenta stesse dell’essere». Come la tortura.

Ma nello stupro c’è la complicazione del piacere, perché provando piacere suo malgrado, la vittima diventa complice del proprio stupro. È sul filo di questa ambiguità che la società ha potuto giustificare l’ingiustificabile e nascondere le proporzioni aberranti di questo fenomeno. La violenza sui minori è infatti un fenomeno sistemico, che deriva dalla dominazione patriarcale e non finisce, «né per me, né per voi, né per nessuno. E finché un solo bambino sulla Terra vivrà questo, non sarà mai finita, per nessuno di noi».

La copertina della traduzione italiana pubblicata da Neri Pozza

Lolita e altre pagine

Neige Sinno ci costringe ad affacciarci sul baratro perché siamo tutti e tutte coinvolte. Ma lo fa con il tono giusto, senza mai cedere al patetismo o al vittimismo, dubitando, interrogandosi, affermando e smentendo, lottando con una determinazione e un coraggio stupefacenti, anche contro lo stesso bisogno di scrivere. Nel paragrafo intitolato «Motivi che ho per non voler scrivere questo libro» ne elenca sette, tra i quali «Non credo nella scrittura come terapia. E se fosse possibile, l’idea di curarmi attraverso il libro mi fa schifo (…) E tuttavia lo scriverò ugualmente, come per una sorta di ribellione insensata. Prendere quel toro per le corna e farlo ammattire».

L’autrice non compie questo viaggio da sola. E qui entra in gioco la letteratura. Perché Triste Tigre è anche un libro sull’impossibilità e sulla necessità della letteratura. Le dieci pagine in cui Neige Sinno analizza Lolita di Nabokov sono stupefacenti per l’acume con cui rilegge l’opera, la sua ambiguità, e la provocazione che rappresentava all’epoca il fatto di chiedere al lettore di mettersi nei panni di un pedofilo, un tabù assoluto nella nostra cultura ancora oggi, a dispetto della sempre crescente sessualizzazione dei bambini.

Il titolo stesso dell’opera rimbalza di tigre in tigre, da William Blake, passando per Margaux Fragoso, autrice americana del memoir Tigre, tigre in cui racconta la sua vicenda di abuso infantile. Nel poema Tigre Blake pone questo interrogativo cruciale: colui che creò l’agnello ha creato anche te, tigre? Fino a che punto si assomigliano la vittima e il carnefice, se sono fatti della stessa pasta? E allora perché io, perché a me? si chiede la vittima. Perché il male? Tutti ci facciamo queste domande a un certo punto della vita. Perché il male è sempre potenzialmente presente in noi e certe situazioni ne favoriscono l’emergere. Così gli uomini uccidono, stuprano «perché possono farlo, perché la società dà quella possibilità, perché qualcuno li ha autorizzati e quando un uomo ha il permesso di stuprare, stupra».

Un altro aspetto centrale di questo viaggio di esplorazione nella dinamica dello stupro è la menzogna. La vittima è costretta a tacere, parlare vorrebbe dire distruggere la famiglia, ridurla sul lastrico nel caso di Neige Sinno (Neige ha una sorella, Rose, e altri due fratellastri nati dalla relazione tra sua madre e il patrigno). Potentissima la scena in cui Neige ragazzina sta lavando i piatti e pensa che basterebbe pronunciare quella parola, STUPRO, per far crollare tutto. Le parole fanno esistere le cose oppure le nascondono.

La zona grigia da indagare

Menzogna è anche quella che lo stupratore racconta a sé stesso, il senso di essere vittima di qualcosa che non controlla, di manifestare attraverso il dominio sull’altro una qualche forma di “amore”. Menzogna è quella di una madre che nega, che non può vedere e che quando la figlia quasi ventenne le racconta cosa le è successo, non riesce a crederci. Deve chiedere conferma al patrigno, e se lui avesse negato (cosa che la maggior parte degli stupratori fa), sarebbe stata la parola di una ragazzina contro quella di un padre. Per questo i casi di abuso rimangono spesso impuniti; lo stupratore da qualche parte lo sa. Il rifiuto della madre di vedere le cose come stanno è al tempo stesso colpevole e non colpevole, perché ancora una volta tutto si gioca sul filo dell’ambiguità, in quella “zona grigia” che solo la letteratura può investigare così a fondo.

Quindi la letteratura è anche une ricerca di verità. Ma come si racconta la verità quando è così dura e scomoda e per certi versi oscena? Fino dove spingersi nelle descrizioni? E rifiutare di mostrare la realtà anche quando è cruda e crudele, edulcorarla, non è un’ennesima strategia di evitamento? «Creare bellezza con l’orrore non equivale molto semplicemente a creare orrore?» si domanda Sinno, è lecito estetizzare la violenza? Non sarebbe meglio abbandonare il «terreno protetto della narrativa», rischiando così però di essere soltanto interpellata sul tema dell’incesto? «Allora cos’è meglio augurarsi? Niente, e il problema sta proprio qui».

Non c’è scampo da questo dilemma. Sinno ha scelto di raccontare questa storia come una testimonianza in prima persona. Dichiara: «La testimonianza è uno strumento di analisi, ma un utensile ben affilato arriva fino all’osso. E quando si arriva all’osso, l’arte non è mai lontana». Il libro di Sinno è stato rifiutato da molti editori prima di approdare all’editore P.O.L. Ma evidentemente ha trovato il modo giusto, perché il libro è un caso editoriale in Francia, ha vinto molti premi tra i quali il Femina e il Goncourt des lycéens ed è stato selezionato per il Premio Strega Europeo. 

Per chi ancora crede nel potere della parola come strumento di indagine della verità, per chi ancora crede nella letteratura come strumento di conoscenza della realtà anche nei suoi aspetti più oscuri e feroci, il libro di Neige Sinno è come un faro che rischiara la notte.

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