L’americani so’ forti, chi è che non lo sa. Ci hanno mandato Buffalo Bill, ci hanno mandato Walt Disney, ci hanno mandato pure Mike Bongiorno. L’americani so’ forti e passiamo tutta la vita aspettando che lo dicano di noi, quando rifanno PInocchio o ti chiamano a Hollywood, quando danno un Grammy a una tua canzone, quando parlano di una scrittrice o di uno chef sul New Yorker. L’americani so’ forti da quando esiste la Dottrina Mericoni, molto più convincente della Dottrina Truman: nel senso di Mericoni Nando, la maschera più famosa di Alberto Sordi, la trascrizione dell’atto di nascita dell’italiano medio.

Un americano a Roma è del 54, e di certo nelle nostre città già esisteva all’epoca chi suonava il jazz nelle cantine per scappare da Nilla Pizzi e Gino Latilla. Esistevano anche palestre di borgata dove certi andavano a tirare pugni contro un sacco, tanto più che il campione dei massimi era mezzo nostro, Rocky Marciano, e mezzo nostro era stato Joe DiMaggio nel baseball.

Ma è Nando il primo che ci convince a voler essere come loro, perché Joe «da bimbo fu trasferito nel Kansas City, questo intrepido bimbo prese la mazza e ha sposato Marilina». Due anni più tardi arriverà Renato Carosone e metterà in musica un Mericoni del sud, quello che porta i pantaloni con uno stemma dietro, Tu vuo’ fà l’americano, whisky soda e rock’n’roll. Ian Dury nel tempo avrebbe rimpiazzato whisky e soda con spunti di intrattenimento alternativi, ma il rock’n’roll ha sempre resistito, perfino quando Little Tony si è sentito Elvis.

La visita di Kennedy

Ora, a questa strana fascinazione, nel tempo abbiamo dato nomi differenti, chi l’ha chiamata atlantismo, chi colonialismo, qualcuno provincialismo, altri hanno resistito voltando lo sguardo dall’altra parte, come Totò che in Letto a tre piazze (1960) attacca il quadro di Stalin a capo del letto. Ma Nando Mericoni è stato maggioranza. Ha vinto ogni volta che un ragazzo metteva un giubbotto di pelle al posto dei cappotti fatti con le coperte dell’esercito. Le magliette non si chiamavano ancora t-shirt ma sostituirono le camicie confezionate con la seta dei paracaduti. I più colti si davano ai libri di Faulkner, Steinbeck e Salinger.

Essere corretti significava guardare all’America, e pensarla possibile, esatta, vicina. A Roma gli ottantenni ancora raccontano di quella volta che in un cinema non meglio identificato, al pistolero del western era rimasta una sola pallottola e con quella ne fece fuori tre. La sala dissacrò con un lunghissimo eeeeh, quando dalla prima fila si alzò un fedele alla dottrina e gridò: se po’ fà, se po’ fà.

Perciò quando venne John Kennedy in visita a Roma e poi a Napoli - sono 60 anni esatti in questo week-end - fu accolto come il super eroe di un fumetto. In quei giorni sul Corriere della sera Umberto Eco tenne un dialogo sul tema con Eric Larrabee e si sentì dire che «quanto succede in America, si verifica a breve in Europa, potrete insegnarci molto, ma forse avete qualcosa da imparare anche da noi». Eco ci ragionò e scrisse che alla fine l'intellettuale europeo si ostina a rifiutare in blocco l'idea che «che il contributo tipico della cultura americana consista nei fenomeni di massa, come se non ne fosse coinvolta la stessa civiltà».

Noi e loro: la politica

Mericoni invece lo sapeva. È nel pop che si nasconde la verità. Quante volte s’è intravista la sua lezione, dietro gli atteggiamenti della politica italiana. L’americani so’ forti, e così sia. De Gasperi era volato negli Stati Uniti nel gennaio del 1947. Aveva ottenuto un prestito da 100 milioni di dollari e soprattutto la soffiata sulla svolta della politica estera Usa. Stava per iniziare la guerra fredda, la Dc fece in tempo a rompere con la sinistra e allontanarla dal governo. D’altra parte, l’anti-americanismo aveva la forza di unire comunisti e post-fascisti. Giorgio Almirante con la sua piccola pattuglia parlamentare aveva perfino votato contro il patto Atlantico, gli pareva una protesi dell’armistizio di Cassibile, mentre favorevole alla Nato si dichiarava Rodolfo Graziani, che all’esercito americano doveva la vita.

È nella scena chiave che la fascinazione di Sordi si disvela, quando lo yogurt, la mostarda e il latte so’ zozzerie, come l’acqua pura sterilizzata che esce dal boccione, meglio spaghetti e vino. Se Mericoni abitasse in mezzo a noi, in quel momento riconosceremmo un sovranista, lasciandoci col dubbio: qual è la maschera? I tempi cambiano, le categorie si mescolano, l’America fa sempre la sua impressione. Giorgia Meloni, per esempio.

Ha tenuto la fiamma di Almirante nel simbolo, ma per ambizioni di governo ha iniziato a cucire la sua tela di relazioni con la finanza, con ex ambasciatori come Lewis Eisenberg, con i pensatoi post-reaganiani, fino a iscriversi all’Aspen Institute e salire sul palco di Trump per la più importante kermesse dei conservatori. Certo, chi l’avrebbe mai detto che poi l’americani avrebbero copiato Sordi. Il suo discorso ai maccheroni è il papà di quello che De Niro fa allo specchio in Taxi Driver, Tom Hanks al pallone di pallavolo in Cast Away. Sordi l’avrebbero copiato pure gli eredi del Pci. Nel ‘54 Togliatti è ancora organico all’Urss, ma piano piano le differenze sfumano in Walter Veltroni che in campagna elettorale dice «Yes we can» alla Barack Obama, se po’ fà, in fondo uguale al tipo in prima fila. Ce lo siamo meritato Alberto Sordi, e un poco  pure Silvio Berlusconi.

Come siamo diventati

Al tempo del film, L'Unità aveva apprezzato la parodia, scrisse che Steno aveva «con spassosa grazia movimentato le vicende, centrando in pieno l'ansia dell'onorevole democristiano davanti a una telefonata che crede giunga dall'ambasciata americana, l'ambiente snob degli artisti statunitensi a Roma, l'americanismo della televisione nostrana». Per fare Mericoni, Sordi si era ispirato a un fanatico che aveva visto da ragazzino, faceva il bagno alle marane, si vestiva da cow-boy e imitava Tarzan. La periferia si stava mangiando la città e tutti a scandalizzarsi di quei pischelli nudi come vermi, dentro all’acqua. L’America era John Wayne, era Gary Cooper, andavano tutti matti per loro, tutti a imitarli, e poi uscivano di casa a fare i meccanici. i muratori, gli idraulici. Tutti affascinati da quel mondo irreale tranne lui, Sordi: «Che ci vado a fare in America?». Enrico Vaime ha raccontato una volta che i Mericoni negli anni ‘50 esistevano davvero. C’era un pittore che era stato in viaggio nella mitica Kankas City e che al ritorno chiedeva agli amici: «Come dite voi in italiano?». Era di Bari.

Oggi la suggestione americana tra i ragazzi s’è trasformata. Non fanno gli americani, in America ci vanno. Ma su Netflix guardano pure le serie coreane. Buscaglione prese lo swing e lo nazionalizzò, la trap di oggi guarda pure al Maghreb. Siamo passati dal grammelot arrangiato di Mericoni alla zia che diceva quanto fosse importante l’inglese, fino a consumare film in lingua originale sulle piattaforme. Pure la politica ha fatto da allora grandi giri, tra i frammenti del muro di Berlino fino alle crisi internazionali di questi giorni. Resta il fatto che se dalla Casa Bianca non fanno una telefonata a Palazzo Chigi, ci restiamo male: non sarà che l’americani non ci ritengono all’altezza? Meglio chiarire, meglio strappare un invito e volare al più presto in visita ufficiale, per un altro scatto mano nella mano col vecchio amico Biden. Se un americano a Roma era commedia all’italiana, una romana in America sarà stand-up comedy.

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