Tutta la nostra vicenda nazionale, in particolare quella degli ultimi ottant’anni, è il risultato di molte appartenenze, di molte patrie, spesso divise, a volte sconfinanti nell’egoismo di sigla, corporazione, clan, nel familismo, ma anche segnate da apertura, generosità, coraggio. Tutte accomunate in un percorso che non è mai stato lineare, ma pieno di ostacoli, cadute, tentazioni di ritorni all’indietro, come accade in ogni biografia degli uomini e delle donne.

Non c’è una sola patria, le patrie degli italiani sono mille, lo ha scritto Carlo Levi, nella loro diversità geografica, culturale, di genere e generazionale, nella distanza politica. Solo partendo da questo riconoscimento diventa possibile sfogliare l’album di fotografie di una storia corale lunga otto decenni.

Un mosaico

Corale, di tutti, è la ricostruzione del paese in macerie dopo la guerra. La grande trasformazione porta l’Italia nel giro di appena un decennio dalla civiltà contadina all’economia industriale, dalle campagne alle città.
I partiti rappresentano la società nelle sue pieghe più profonde, dal cattolicesimo che in politica prende la forma nella Democrazia cristiana, plurale per ispirazione e rappresentanza sociale, il vero unico partito della Nazione, al radicamento nel paese della sinistra comunista, socialista, azionista, alle forze liberali che pesano molto più dei loro numeri elettorali.

Un mosaico in cui ogni singola tessera regge l’intero sistema. L’album diventa a colori, come in una delle scene più poetiche del cinema di Ettore Scola, in C’eravamo tanto amati, quando il madonnaro dipinge la sua opera sul selciato di piazza Caprera a Roma e intanto l’immagine passa dal bianco e nero al colore, sono trascorsi trent’anni in un soffio e l’Italia è cambiata.

La contestazione studentesca e la lotta nelle fabbriche dei sindacati. Le piccole imprese, invisibili alla grande industria. Le donne si rivoltano e si prendono la scena pubblica. La nuova resistenza contro il terrorismo e contro le mafie. La società chiede emancipazione, libertà, nei comportamenti e nei consumi, non tollera più di essere portata per mano dai partiti.
Ma senza più quell'ossatura, e con la rivoluzione dell’individuo negli anni Ottanta, il corpo della nazione si smembra, si guasta, si rompe e si corrompe. E lascia il posto al disfacimento, la rabbia, il rancore, il vento dell’antipolitica che ha nel paese radici antiche: la diffidenza verso le élites, ma anche verso lo stato, verso ciò che è pubblico, verso «chi mette le mani nelle tasche degli italiani».

La fragilità 

Fino ad arrivare a un’improvvisa sensazione di fragilità. È la conseguenza negli ultimi anni del Covid e della guerra, ma anche di una mancanza di orizzonte collettivo, la navigazione a vista. In ognuna di queste fasi i mezzi di comunicazione non sono solo uno strumento di informazione o di intrattenimento.
La Rai dei partiti, le radio e le tv libere, il monopolio della tv commerciale di Silvio Berlusconi, la Rete, i social sono strettamente intrecciati al sistema politico e alle trasformazioni sociali. Le precedono, le condizionano, le riflettono. Per ben due volte in venti anni, nel 1994 e nel 2013, il primato elettorale è stato raggiunto da due partiti nati dalla tv commerciale (Forza Italia) e dalla Rete (il Movimento 5 Stelle).

Mai, nella sua storia, l’Italia ha vissuto una stagione così lunga di unità nazionale, benessere economico e democrazia politica. Per secoli almeno una di queste condizioni era mancata. Solo durante la Repubblica fondata sulla Costituzione è accaduto, anche se sono in pochi a riconoscerlo.

In tutti questi momenti le mille patrie si sono incrociate, si sono scontrate, hanno convissuto, si sono riunite quando le libertà conquistate sono state minacciate.
C’è un filo che lega le trame occulte che hanno tormentato il nostro paese come in nessun altro angolo d’Europa. Un paese a sovranità limitata, sconfitto nell’ultimo conflitto mondiale, dove le grandi scelte strategiche operate con lungimiranza da Alcide De Gasperi, l’atlantismo e l’Europa, sono state interpretate dai suoi successori in modo creativo e non servile.

La fragile democrazia italiana è stata attraversata da tentazioni golpiste, i legami tra i vertici dei servizi, la loggia massonica P2 e la manovalanza neofascista, le stragi che hanno insanguinato per più di un decennio le piazze, i treni, le stazioni.
Il terrorismo di sinistra, all’ombra dei processi popolari e delle condanne da eseguire, ha stroncato una stagione di cambiamento e ha portato in dono alla reazione l’eliminazione fisica di politici riformisti, studiosi progressisti, magistrati coraggiosi, giornalisti, operai.

L’album di famiglia

Come nella vita di un individuo, o di una famiglia, i funerali si trasformano per la comunità nazionale in un’occasione di riflettere su chi sei o su cosa sei diventato, un’emozione collettiva. Nell’album trovano posto i minatori emigrati vittime a Marcinelle, le bandiere rosse che salutano Palmiro Togliatti e Enrico Berlinguer, il cielo livido di Milano davanti al Duomo nella notte della Repubblica, la strage di piazza Fontana, le esequie senza salma di Aldo Moro con gli uomini dello stato in ginocchio davanti al papa che sono il funerale della Repubblica, fino agli ultimi, il congedo da Silvio Berlusconi e da Michela Murgia. Si sta insieme nel dolore e più raramente nella gioia di una vittoria sportiva, della battaglia per un diritto.

Una storia segnata da singole persone che quando arriva il momento sanno scegliersi la parte. Figure come l’avvocato Giorgio Ambrosoli che scrisse alla moglie Lori, prima di essere ucciso dalla mafia politica, lui monarchico, che era orgoglioso di fare politica «in nome dello stato e non dei partiti», per un paese «che si chiami Italia o si chiami Europa».
O come Franca Viola, la ragazza di Alcamo che nel 1965 rifiuta il matrimonio riparatore dopo essere stata violentata da un mafioso, la prima donna a farlo. O come Ilaria Cucchi, che non si arrende di fronte alla verità ufficiale sulla morte del fratello Stefano, «morto per colpa sua». Sono anche loro la piccola Patria che salva il paese ufficiale dalla vergogna e dal disonore.
Famiglie segnate per caso da una tragedia che ha distrutto un loro caro, prendere un aereo, aspettare un treno, si associano per chiedere verità e giustizia non solo per se stessi ma per tutti. Come le famiglie di Brescia, di Bologna, di Ustica, o come la famiglia di Giulio Regeni. A loro è toccato il compito più alto.
Tra tanti che spendono la parola «patria» per nobilitare un interesse particolare, sono riusciti a trasformare il proprio dolore in un destino comune, a colmare il vuoto delle istituzioni e dello stato, a rappresentare la patria che altri hanno offeso.

Nelle pagine finali l’album si arricchisce di volti sconosciuti. Quelli che se ne vanno e quelli che arrivano. I ragazzi che ricominciano a lasciare il paese verso altre nazioni, gli expat, li chiamano in gergo burocratico.
E i migranti che sbarcano sulle nostre coste. Prima dall’Albania, nel 1991, approda un boat-people, appare un popolo intero a bordo di una nave, poi dall’Africa, nel cuore del Mediterraneo, verso il sogno che per loro è l’Europa e non l’Italia.
La piccola Patria è la traversata del deserto a piedi nudi, la prigione delle torture in Libia, il barchino che attraversa il mare fino a Lampedusa. Sanno scegliersi la parte i giovani che soccorrono e salvano vite, imbarcandosi sulle navi delle ong, come la Mare Jonio di Mediterranea Saving Humans, con il suo equipaggio di mare e equipaggio di terra: attivisti, studenti, intellettuali, preti, suore. Sono spesso ostacolati dai governi di ogni colore, eppure sono una riserva etica, una nuova forma di impegno e di militanza civile e politica.

Mentre i nuovi italiani sono nelle fabbriche e nelle campagne, nelle città e nelle scuole, spesso senza cittadinanza e senza diritti, invisibili. Come Saman Abbas, la ragazza di origine pakistana, sparita e uccisa dalla sua famiglia a Novellara il primo maggio 2021 perché ha rifiutato un matrimonio combinato, come aveva fatto Franca Viola mezzo secolo prima.
O Soumaila Sacko, il sindacalista dei braccianti venuto dal Mali, ucciso a colpi di fucile il 2 giugno 2018 da un quarantottenne italiano che ha mirato contro di lui a San Calogero, in Calabria, come faceva, scrisse Emanuele Macaluso, la mafia contro i capilega che si battevano nelle campagne siciliane per l’occupazione delle terre. Il primo maggio e il due giugno, la festa del lavoro e la festa della Repubblica, non sono date casuali, assomigliano alla distanza che resta tra le promesse di libertà contenute nella Costituzione e la loro incompiutezza che le rende astratte per la popolazione.

«Io sono un filo d’erba / un filo d’erba che trema / E la mia Patria è dove l’erba trema / Un alito può trapiantare / il mio seme lontano», scriveva Rocco Scotellaro nel 1949, in una poesia intitolata non per caso La mia bella Patria. La patria non è una fortezza da difendere, un castello da rendere inespugnabile, ma è un filo d'erba che trema, un seme che può essere raccolto altrove.

Solo accettando la condizione degli ex-patriati, solo se la patria, come l’abbiamo conosciuta, diventa una «Ex-Patria» potremo ritrovare il senso della nostra appartenenza. Solo perdendoci potremo ritrovarci, solo uscendo da noi stessi potremo ritornare a casa, per poi uscire ancora. Per compiere un altro passo di quel cammino cominciato ottant’anni fa, in una mattina di primavera.


Da La mia piccola patria. Storia corale di un paese che esiste © 2023 Rizzoli

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