In una composta conferenza stampa mercoledì 15 febbraio Nicola Sturgeon ha rassegnato le dimissioni da primo ministro scozzese e da leader dello Scottish national party.

Nelle ultime settimane le voci di un suo ritiro si erano intensificate, ma la notizia tuttavia è arrivata inaspettatamente.

Proprio lo stesso giorno in cui un altro leader, Keir Starmer, soltanto qualche minuto prima aveva concluso un’altra conferenza stampa da lui stesso definita ‘storica’. Confermando altre voci che da tempo circolavano sul suo predecessore Jeremy Corbyn.

Starmer ha annunciato con visibile orgoglio che il partito Laburista alla fine di un lungo periodo di osservazione da parte dell’Equality and Human Rights Commission era stato esonerato dalle misure speciali a cui era stato sottoposto per antisemitismo.

E ha assicurato ufficialmente che alle prossime elezioni Corbyn, leader nel periodo sottoposto a indagine, non sarà candidato nelle liste laburiste.

Svolte 

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Le dimissioni del leader scozzese stanno chiaramente oscurando Starmer e la sua «vittoria» nella lunga battaglia contro l’antisemitismo istituzionale del Labour, parole sue queste ultime. E certamente anche nei prossimi giorni appanneranno le reazioni dei corbynisti fuori e dentro il partito.

Non leggiamoci, almeno per ora, nessuna azione coordinata o cospirazione in questa coincidenza. Caso, puro caso.

Tuttavia, vale la pena insistere un po’ sul significato di entrambe e chiedersi se il 15 febbraio 2023 inizia davvero una nuova fase della politica britannica.

Uno dei principali talenti di Sturgeon, alla guida dello Snp da otto anni, è sempre stata la sua capacità di trattare l’elettorato con intelligenza, non considerando il pubblico una massa inerme da manovrare ma un attore con cui dialogare alla pari.

Anche nel suo ultimo discorso da leader non si è smentita indicando come motivo principale delle dimissioni una sua stanchezza personale, la quale nel lungo periodo andrebbe inesorabilmente a minare il partito e l’istituzione. Un discorso bello e onesto, diretto.

Ma i motivi che hanno spinto Sturgeon alle dimissioni, francamente, sono politici.

Non tanto il calo di popolarità degli ultimi mesi – in un recente sondaggio il 42 per cento auspicava le sue dimissioni immediate – o la proposta di legge per il riconoscimento di genere che ha incontrato tante difficoltà nel parlamento scozzese e da ultimo bloccata da Westminster; un’azione senza precedenti nella storia della devolution scozzese.

Ma piuttosto è stata la recente fatica della causa indipendentista che ha spinto all’isolamento Sturgeon e il governo.

La strategia di rilanciare così presto dopo la sconfitta del 2014 un altro referendum e, soprattutto, legare le prossime elezioni alla sola questione dell’indipendenza non stanno infatti pagando.

Sondaggi che danno la vittoria al no, riconfermando l’esito del precedente referendum, e tensioni interne al partito hanno sicuramente giocato il ruolo principale; meglio andarsene ora, prima che la parabola discendete tocchi il fondo.

Sturgeon lascia un partito e un governo in una situazione difficile, schiacciati da una strategia miope e da una crescente conflittualità sociale anche in Scozia, non minore rispetto alle altre parti del paese: una stagione di scioperi che non si vedeva dagli anni ’80.

Il suo successore non ha certo un lavoro facile davanti: dovrà cambiare linea politica ma non identità, dovrà confrontarsi con una cultura all’interno del partito forgiata da anni di battaglie indipendentiste ma avrà a che fare con una nuova generazione di scozzesi che sembra sempre meno interessata alla secessione e sempre più convinta di volere un futuro in Europa.

Dopo Brexit

Una situazione che sembra replicarsi, per quanto riguarda il rapporto con l’Europa, anche nel resto della Gran Bretagna.

Certo, qui non è in discussione la scelta della Brexit, che sia chiaro. Anche se il Financial Times per mano di Gideon Rachman ha fatto un esplicito coming out auspicando un netto rovesciamento della Brexit, ci vorrà ancora molto tempo prima che si possa parlare con freddezza di rapporti con l’Unione Europea.

Starmer, che i sondaggi danno ormai come un primo ministro "in waiting”, lo sa e non ha nessuna intenzione di esporsi e ri-radicalizzare il tema.

Ma non va sottovalutato come anche la questione europea non sia più un tabù per l’opinione pubblica inglese.

Una nuova generazione che non aveva potuto votare al referendum del 2016 e che ora sta subendo le conseguenze della Brexit, della pandemia e dell’inflazione si affaccia alla politica: secondo un recente sondaggio il 54 per cento dei britannici crede che sia stata una decisione sbagliata lasciare l’Ue.

Paradossalmente il Labour sembra dunque avvantaggiarsi non soltanto della disastrosa gestione della Brexit da parte dei governi conservatori, ma anche delle turbolenze sociali e della radicalizzazione degli scioperi.

E ciò, nonostante presenti ora un leader compassato e ben diverso da Corbyn che della politica in piazza aveva fatto la sua cifra distintiva.

Le elezioni sono ancora lontane; cosa farà la sinistra del partito e come lo stesso partito riuscirà a tenere insieme tutte le sue anime lo scopriremo presto.

Ma decidere di non ricandidare ai Comuni uno che sta in parlamento ininterrottamente da 40 anni – Corbyn rappresenta il collegio Londra-Islington Nord dal 1983 – non è in sé una purga interna o scelta impolitica e retrograda.

Una nuova stagione politica britannica è iniziata. Prima o poi lo comprenderanno anche i conservatori. La vera domanda è quanti altri danni faranno prima di capirlo.

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