Ma l’Italia del calcio è mai stata davvero un paese per giovani? Ce lo si chiede guardando i risultati della nazionale Under 20 e di quella maggiore maturati a pochi giorni di distanza.

I ragazzi di Carmine Nunziata hanno visto sfumare in finale contro l’Uruguay la splendida avventura del Mondiale disputato in Argentina. Invece i veterani di Roberto Mancini hanno visto arrestare subito, nella semifinale contro gli spagnoli a Enschede, il cammino nella Final Four di Nations League. E rispetto alla sconfitta degli azzurri maggiori si potrebbe fare una battuta dicendo che almeno il calcio italiano si è risparmiato la quinta finale persa di stagione, dopo le tre sconfitte dei nostri club negli atti conclusivi delle coppe europee e quella menzionata dell’Under 20. Ma sarebbe, appunto, soltanto una battuta.

Meglio riflettere su questo passaggio di ricostruzione di un sistema che prova a uscire da uno dei momenti più difficili della propria storia e che sul piano dei risultati qualche segnale di rilancio lo dà anche (alzi la mano chi, a inizio stagione, prevedeva che tutte le finali di coppe europee contemplassero la presenza di una squadra della Serie A), ma che proprio in materia di fiducia da assegnare ai giovani continua a essere deficitario.

Sicuramente c’è da chiedersi perché mai le cose stiano così. Ma altrettanto opportuno è interrogarsi su quanto i nostri giovani siano pronti per competere al massimo livello.

Uno scudetto non fa Primavera

Partiamo proprio dal sistema formativo e da quello che dovrebbe essere il suo gradino più elevato prima dell’approdo in prima squadra: il campionato Primavera. Nome suggestivo, perché significa molte cose. E fra queste c’è anche la conferma di un luogo comune: che non esistono più le mezze stagioni.

In linea di principio la squadra Primavera dovrebbe essere l’apice della catena di formazione di un club e mettere in campo formazioni competitive in assoluto, l’anticamera della prima squadra alla quale la stessa dovrebbe poter attingere in caso di necessità. Invece nei fatti le cose non stanno così e i motivi sono due.

Il primo motivo è che fra una formazione Primavera e la sua prima squadra esiste un divario abissale, di quelli che si potrebbe rilevare fra una squadra di Serie A e una modesta squadra di Serie C. E sarà anche difficile accettare l’idea, ma allo stato delle cose il campionato Primavera è per molti dei suoi protagonisti l’anticamera di un binario morto.

Per la gran parte dei calcistori usciti da lì si apre la trafila dei prestiti in squadre delle categorie minori, che in ampia misura si risolvono nella discesa fra i dilettanti se non nell’abbandono della carriera. Si tratta di una realtà di cui gli esperti italiani di calcio giovanile sono ben consapevoli e metterebbero per iscritto: il campionato Primavera non è competitivo e anche per i suoi protagonisti più validi l’impatto col calcio degli adulti rischia di essere traumatico.

In questo senso fa scuola il caso del Chievo Primavera campione d’Italia 2013-2014. Nessun calciatore di quella squadra è approdato alla squadra maggiore, nessuno ha mai giocato in Serie A, quasi tutti sono spariti dal calcio professionistico.

L’unico a fare carriera è stato l’allenatore Paolo Nicolato, entrato nei ranghi dei tecnici federali e, dal 2019, alla guida della nazionale Under 21. Nel frattempo il Chievo aveva già iniziato a fare ben altro uso dei calciatori della Primavera, trasformando molti di loro in plusvalenze incrociate.

Più mercato meno formazione

Il secondo motivo per cui la Primavera non funziona è perché ha smesso di essere l’apice della catena della formazione per trasformarsi nel banco di sperimentazione delle pratiche di scouting. Con l’avvio del nuovo secolo abbiamo assistito all’incrementarsi di una prassi che fino al secolo scorso sarebbe stata inconcepibile: ricorrere al mercato per rafforzare le formazioni Primavera.

Una scelta che in una logica di pura formazione è sballata ma che per chi pensa di dover fare incetta di talenti in crescita (specie sui mercati esteri) è una soluzione comoda. Che fino a pochi anni fa trovava anche una sua ragione d’essere in termini di gestione del bilancio annuale, dato che consentiva di iscrivere fra gli attivi la “capitalizzazione costi vivaio”. Dall’anno scorso questa festa è finita ma rimane la prassi di fare delle formazioni Primavera una tappa per i giovani calciatori acquisiti sul mercato.

Con l’andare del tempo la prassi è stata estesa anche alle categorie giovanili inferiori. L’effetto principale di tutto ciò è la progressiva rinuncia alla funzione di formazione. Perché rischiare sulla costruzione del talento (che è l’operazione più dispendiosa in assoluto) quando è così comodo comprarlo già pronto o semi-lavorato?

Sicché le squadre Primavera italiane abbondano di calciatori acquisiti anziché formati, e per ampia parte questi calciatori acquisiti sono stranieri. Su questo piano l’esempio del Lecce Primavera fresco campione d’Italia è emblematico: la formazione titolare è composta esclusivamente da stranieri, giunti in Salento quasi tutti tramite operazioni di calciomercato. In applicazione di un’idea parecchio sui generis a proposito di cosa sia formazione.

Non C siamo

Quale possa essere il valore formativo di un campionato giovanile trasformato nel regno dello scouting lo si può ben capire dalle premesse che abbiamo appena illustrato. E viene confermato dal modo molto parco con cui i giovani vengono lanciati dalle nostre squadre di Serie A.

L’Atalanta rimane un’eccezione. All’opposto una squadra campione d’Italia come il Napoli, assolutamente ammirevole per il gioco messo in mostra, detiene, come rimarcato dai dati di Opta Analyst, anche un record negativo nell’ambito delle cinque principali leghe europee: è, assieme all’Union Berlino, l’unica squadra a non avere impiegato nemmeno per un minuto un calciatore under 21 nelle gare di campionato.

Ancora una volta siamo nell’ambito delle scelte, che però rischiano di ritorcersi contro le stesse società da cui sono compiute. Perché poter contare su una buona trafila della formazione è comunque un vantaggio in tutti i sensi. E invece si preferisce continuare a dinsinvestire sulla formazione privilegiando lo scouting, o esternalizzando parte dell’incombenza alle scuole calcio.

L’idea di creare una più diretta connessione fra squadra maggiore e squadra Primavera continua a essere aliena. Piuttosto, meglio riprendere il miope progetto delle squadre B, che già nei campionati dove viene adottato da anni funziona in modo alquanto discontinuo e che in Italia ha trovato fin qui applicazione con l’ex Juventus Under 23, successivamente trasformata in Juventus Next Gen.

Coi risultati che conosciamo: la trasformazione della seconda squadra bianconera in un plusvalenzificio. Sarebbe bastato poco per dissuadere dal seguirne l’esempio. E invece no, il nuovo presidente della Lega Serie C, Matteo Marani, ha scelto di accogliere altre squadre B.

L’Atalanta è già pronta, altre potrebbero seguire. Con l’effetto di sottrarre posti a società rappresentative di territori reali e di comunità locali con una tradizione, per far spazio squadre la cui sola urgenza di mantenere attive truppe eccedentarie di calciatori che sono effetto di uno scouting esagerato, e di riempire di squadre artificiali le categorie inferiori.

Che ciò sia utile per il nostro sistema formativo è cosa quantomeno opinabile, né vale indicare quei pochi calciatori che dalla seconda squadra sono arrivati a essere utilizzati in pianta stabile dalla squadra maggiore bianconera. Perché si tratta di calciatori che ce l’avrebbero fatta comunque. E allora, quale sarebbe la soluzione? Risposta tanto semplice nell’enunciazione quanto complicata nell’attuazione: tornare a fare formazione vera. Ed evitare di utilizzare le categorie giovanili per lo scouting. Si tratta di una scelta rischiosa e costosa, ma è la sola che possa pagare.

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