Succede che durante Inter-Napoli in una delle giornate “Keep Racism Out”, la campagna antidiscriminazioni promossa da Lega Serie A, Francesco Acerbi, difensore dell’Inter e della nazionale, dopo diversi scontri di gioco abbia detto a Juan Jesus, difensore del Napoli, «negro». Jesus l’ha riferito all’arbitro Federico La Penna, tra l’altro indicandogli la scritta sulla maglia e sottolineando che era una domenica contro il razzismo, l’arbitro non si è scomposto, non ha ammonito, ma ha poi refertato, e Jesus ha porto l’altra guancia.

A fine gara ai microfoni di Dazn ha detto: «Acerbi mi ha chiesto scusa, è un bravo ragazzo, e poi quello che succede in campo rimane in campo». Ci fosse stato Beppe Viola avrebbe replicato: «forse nei campi di cotone». Ma, invece, c’era Diletta Leotta e tutto è ripreso come se nulla fosse. Jesus ha perdonato e si è continuato con lo slogan che ripetevano calciatori e allenatori, e via.

«Keep Racism Out». «Keep Racism Out anche a lei».

La campagna

Non si può fermare la campagna e chiedersene il senso, no, rovinerebbe il messaggio, meglio ignorare il fatto che ha già smentito il messaggio, tanto è solo un «negro» dal sen fuggito. Se Jesus – nomen omen – perdona, tutto è perdonato. Ciao Malcolm X, Martin Luther King, Muhammad Ali, «Keep Racism Out» anche a voi. Poi, verrebbe da chiedersi che cosa ne pensa Marc Thuram – compagno di squadra di Acerbi e primo calciatore ad essersi inginocchiato in Europa – e soprattutto suo padre Lilian Thuram che da anni lotta contro il razzismo, con una fondazione, tante iniziative e diversi libri (“Le mie stelle nere”, “Per l’uguaglianza” e “Il pensiero bianco” editi da add editore).

E se è vero che anche Thuram senior è convinto che la vittimizzazione vada combattuta, quindi bene l’atteggiamento iniziale di Jesus, qualche riflessione in più andava fatta. Anche perché il Ct della Nazionale, Luciano Spalletti, ha deciso di escludere Acerbi dalle due amichevoli dell’Italia, anche nel dubbio: perché il bravo ragazzo dice che non c’è offesa né la parola razzista, tanto che a questo punto come nel finale di “Lost in Translation” di Sofia Coppola è scattata la ricerca dei video e la lettura dei labiali per capire che cosa abbia detto Acerbi. Forse ha detto: «Keep Racism Out» velocemente. Ma questo poi si accerterà.

Il codice del campo

Il punto è, e sarebbe un dato, il campo è l’ultimo luogo dove si può dire tutto? Poche settimane fa a Udine, il portiere del Milan, Mike Maignan, era stato offeso da dei tifosi, sono stati identificati e daspati per cinque anni dagli stadi italiani e banditi a vita da quello di Udine, per aver urlato «negro», «scimmia», il resto verrebbe di conseguenza, oppure Acerbi è una eccezione e rischierebbe – solo – dieci giornate di squalifica, più l’allontanamento – già inflitto – dalla nazionale. Ma mettiamo che Acerbi sia davvero un bravo ragazzo come dice Jesus, e mettiamo anche che non abbia mai detto che non bisogna fermarsi per i cori razzisti negli stadi, e che sia anche un sincero socialdemocratico e cittadino modello, se uno sportivo esemplare appena va in conflitto con un calciatore dice «negro», è evidente che c’è un problema. O se recita dieci «Keep Racism Out» e canta “We shall overcome” di Joan Baez è salvo?

Oppure le campagne non servono a niente e forse bisogna obbligare quelli come Acerbi, proprio perché bravi ragazzi, a leggere almeno “Il buio oltre la siepe”? Anche perché Jesus che porge l’altra guancia, non è Maignan che ne esce scosso, o Koulibaly che impazzisce – sempre San Siro, sempre l’Internazionale, quindi Acerbi ignora anche la storia della squadra in cui milita – potrebbe anche fare scuola, come Dani Alves che raccolse la banana che gli lanciarono qualche anno fa, in Villarreal-Barcellona, la sbucciò e la mangiò, più ironico di Rosa Parks e meno ideologico di Tommie Smith, smontando l’offesa.

È una questione di storia? I brasiliani hanno subito di più dei colonizzati francesi e minimizzano? Ma resta l’iniquità tra Udine e Milano, tra gli spalti e il campo: si salva il calciatore e si condanna l’ultras? Oppure serve una linea dura per tutti? (l’offesa varia in base all’investimento?). O si procede a tentoni e per emergenze mentre in coro tutti ripetono «Keep Racism Out» un modo elegante per passare oltre, come Dazn, come i telecronisti, come l’arbitro, come i dirigenti, gli allenatori e i calciatori? Oppure è una questione di tono? Di voce? Di coro? O forse bisogna smetterla con le campagne e gli slogan e fare altro? Impegnandosi e non solo contro il razzismo, ma contro ogni forma di discriminazione, senza separarle da domenica a domenica – spesso i fenomeni si presentano contemporaneamente – e preoccuparsi di far crescere la sensibilità verso gli altri.

Gli stadi

Jesus che lascia cadere l’offesa è un uomo di buona volontà o un superficiale? Sarebbe bello sentire Spike Lee («Juan, fa’ la cosa giusta» direbbe). O Jesus – come Totò – non s’intimida e l’offesa non vale? E quindi ogni discussione è inutile come la campagna «Keep Racism Out». E basta che perdoni uno perché dimentichino tutti? Quanti «negro» deve scandire il calcio prima che si possa definire un insulto? La risposta, amici miei, ascoltatela dalla FIGC, canterebbe Bob Dylan, che vale anche come assoluzione. Se il bravo ragazzo Acerbi e il suo procuratore che lo difende pensa-no che dopo due scontri di gioco si debba o possa dire «negro» c’è un problema culturale che investe anche gli altri bianchi.

Acerbi non è Ricky Gervais che usa queste situazioni per scardinarle, diventando – suo malgrado – una delle avanguardie del pensiero libero: il comico non pensa a «negro» come una offesa, ma come un problema culturale da risolvere ridendo. Acerbi, invece, non ha ironia, e questo è il vero grande problema dei razzisti, soprattutto quelli soft-occasionali, quelli che una volta mica è per sempre, quelli che «è stata solo una bravata», quelli che vedono sempre “Philadelphia” e sono cresciuti cantando “Ringo People”, quelli che dicono che il problema è solo ideologico, quelli involontari, quelli che son bravi ragazzi e chiedono scusa e per questo inciampano nella comicità divenendo – involontariamente – uno sketch dei Monty Python.

Tutta questa storia non dovrebbe esistere, invece il calcio, i campi, gli stadi, sono diventati dei luoghi del passato peggiore, dove in una società liquida non ci sono gay, non ci sono razzisti, xenofobi e fascisti, son tutti bravi ragazzi che saltuariamente sono omofobi, razzisti, xenofobi e fascisti, ma solo un po’, a intermittenza, del resto l’intolleranza, come un qualsiasi altro hobby, dovrebbe essere riservato alla domenica.

E più Acerbi nega (perché Jesus avrebbe dovuto inventarsi l’offesa e il perdono? Per tenere fede al nome?) più la questione si allarga. Sarebbe stato meglio dichiarare, ammettere, scusarsi pubblicamente e pensare a come aiutare quelli che sbagliano senza aspettare la prossima campagna di sensibilizzazione.

E anche l’Inter che prende tempo, smentisce la propria storia. Non si tratta di crocifiggere Acerbi, ma si tratta di lavorare su un problema italiano che esiste, che riguarda anche il Nord e il Sud del paese, le persone che emigrano, quelle che scelgono di uscire dal canone sessuale, religioso, politico imposto, insomma, è un problema molto più grande, di cui Acerbi è solo l’ultima spia luminosa accesa per un attimo dallo stupore di Juan Jesus che poi ha lasciato correre. Ma gli altri? Il senegalese nel parcheggio, il siriano sulle coste calabresi, il cinese sotto casa, quello strano di basket e via così?

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