Gianluca

Giugno 1984, Firenze, capolinea autobus. Dalla vetrina del negozio Best Company vediamo l’autista del 14 scendere e, lasciando il motore acceso, dirigersi a passo svelto verso un bar. Mi torna in mente Campi Bisenzio, piazza Dante, otto anni prima. Fabio, figlio del titolare di una ditta di trasporti, voleva dimostrarmi che – a dispetto dei nostri 16 anni – lui era perfettamente in grado di guidare un autobus.

Anche in quel caso, benedetta minzione, avevamo trovato il mezzo acceso. C’eravamo fatti un giro passando davanti al bar dove abitualmente stazionavano i nostri amici che, dal basso della loro partita a biliardino, ci avevano guardato increduli e invidiosi. Eravamo arrivati fino alla circonvallazione e poi, non sapendo che altro fare, avevamo riportato il mezzo al capolinea dove, per fortuna, nessuno si era accorto dell’autobus mancante.

Oggi è il momento di ripetere, perfezionandola dall’alto dei nostri 24 anni, l’impresa di Campi Bisenzio. Dico ai miei amici di seguirmi (stavolta siamo in tre). Dobbiamo fare in fretta (stavolta siamo nel centro di Firenze). Cominciamo a indicare i monumenti (stavolta l’autobus è pieno di turisti).

Inglese, francese, spagnolo, portoghese… la nostra attività di guide non si limita soltanto all’italiano.

Alcune fermate accrescono il numero della nostra multietnica platea. Tutti ci guardano attenti, molti annuiscono, molti scattano foto.

Qualcuno a un certo punto chiede informazioni sull’itinerario. Gli rispondiamo che cambia ogni volta: è la bellezza di quei luoghi a ispirarci. Su Lungarno direzione Fiesole accostiamo e abbandoniamo il mezzo, lasciando orfani di autista e guide le inconsapevoli cavie del nostro esperimento.

Nella mia vita c’è un punto di svolta che mi fa deviare da quello che sarebbe naturalmente stato il mio destino, allontanandomi da un itinerario già segnato, come l’autobus 14 quel pomeriggio di giugno, al capolinea. Fino all’età di 10 anni vivo al centro di Firenze, bella casa, famiglia borghese, nonno musicista, e frequento le elementari dalle Suore Serve di Maria Santissima Addolorata, l’istituto più prestigioso della città.

Senza darmi spiegazioni, un giorno i miei genitori decidono di trasferirsi a Campi Bisenzio. Cresciuto tra piazza Savonarola e piazza della Libertà, mi ritrovo all’improvviso in mezzo a figli di mafiosi e ‘ndranghetisti confinati. Io con la merenda nel cestino, loro col coltello in tasca.

Mi sento a disagio, sempre fuori posto. Mi chiudo in me stesso, le parole mi si spengono in bocca. Ho paura. Trovo la forza di confidarmi con mio nonno. Fatico a incrociarne lo sguardo, mentre a testa bassa, gli racconto i miei problemi. «Nella vita, Gianluca, o sei incudine o sei martello», mi dice lapidario. Rifletto per qualche ora sulle sue parole. Quel giorno capisco che il mio destino avrebbe preso un’altra direzione. Quel giorno scelgo di essere martello.

Soldano

Rispondo al telefono. È mio padre. «L’ambasciatore americano mi ha appena detto che, siccome Michael Jordan è a Firenze, lui gli ha consigliato di venire a mangiare da noi. Mi raccomando, trattalo bene. È già arrivato?». La domanda mi coglie impreparato. A La giostra vengono spesso personaggi famosi. Io, però, non li riconosco quasi mai.

«Michael Jordan, il campione di basket?», gli domando.

«Michael Jordan, 6 titoli Nba vinti, 32.292 punti realizzati, una media di 30,12 punti a partita», dice il Primario seduto, come sempre, tra la cassa e il portaombrelli.

Il Primario è una presenza fissa al nostro ristorante.

Ho sempre dato per scontato che fosse un medico fino a quando, un giorno, ho chiesto a mio padre in che ospedale lavorasse e lui m’ha risposto che non è un dottore, ma un genio dei numeri (Primario come se fosse un’onorificenza conferita al massimo esperto di matematica e, tra le altre cose, di numeri primi)… e allora mi sono ricordato di quella volta che alcuni clienti mi avevano chiesto di dividere il conto per pagare alla romana e il Primario, senza neanche alzare la testa, più veloce della mia calcolatrice: «52,3 ripetuto all’infinito».

Disse così, ripetuto all’infinito. I numeri periodici non li aveva mai studiati ma ne intuiva l’esistenza. La matematica per lui era puro istinto, genialità al limite dell’autismo.

Prima che il babbo mi richiami, sollecitando una risposta, cerco di capire se abbiamo in sala Michael Jordan. Anche se il suo viso esattamente non me lo ricordo, il fatto che sia un uomo di colore, alto due metri, fisico da atleta, dovrebbe agevolare la ricerca.

Abbiamo spesso clienti americani e quella sera, di possibili Michael Jordan, ne individuo almeno tre. Vado verso il più vicino, che si è appena seduto con due amici alti come lui, portandogli il menù. Parlano tedesco. Un altro condivide il tavolo con una donna e due bambini. Ha figli, Michael Jordan? Non ne ho idea. Un cameriere che ha già preso le loro ordinazioni mi dice che sono americani. Raggiungo il terzo che, per fortuna, è ancora intento nello studio del menù. Parla inglese. Sul cibo ha le idee chiare, due chili di bistecca. Per quanto riguarda il vino si affida ai miei consigli. Gli chiedo di indicarmi un range di prezzo. «Range illimitato», mi risponde. «Grazie Mister Jordan – ribatto prontamente – ci penso io». Sorride. Anche questa volta ci siamo salvati!

Trovare soluzioni è una dote di famiglia. Quando a vent’anni mi presentavo al castello all’ora di pranzo, con un branco di ragazzi delle più importanti casate fiorentine, mio padre – imperturbabile – apriva il frigo e, con quello che ci trovava, allestiva in dieci minuti un fantastico banchetto. Lui adorava cucinare e tutti i suoi ospiti gli dicevano che avrebbe dovuto aprire un ristorante.

A un certo punto ci ritroviamo senza soldi. Una sera mio padre, quasi sovrappensiero, mi domanda: «…ma …se apriamo un ristorante, i nostri amici altolocati ci verranno a mangiare, a pagamento?».

Nasco a San Marino, ma in realtà ai piedi del Monte Titano resto solo poche ore, vengo portato subito al castello di famiglia, Kunz Lorena D’Asburgo, in Toscana, vicino Tavarnelle Val di Pesa.

Niente asilo, mio padre vuole farci crescere liberi in campagna. I miei compagni di giochi sono i figli dei contadini, i miei giocattoli sono cani, cavalli, oche e galline, le mie aule sono il frutteto, il vigneto e i campi di grano.

Imparo a guidare il trattore prima che ad andare in bicicletta. Ci trasferiamo nella casa di Firenze solo la sera prima dell’inizio della scuola. Le lezioni, con il loro corollario di regole, divieti e imposizioni, sono un trauma per un selvaggio come me, abituato all’anarchia delle giornate di campagna. Non turbano invece il mio gemello Dimitri, elegante e inappuntabile anche da bambino.

Il vero trauma per me, però, sono i bottoni. Il mio corpo e la mia mente li hanno sempre rifiutati ma mentre in campagna pantaloncini con l’elastico, magliette e maglioncini vari mi evitavano il problema… la scuola impone una divisa.

Una divisa piena di bottoni. I miei genitori risolvono il problema facendomene confezionare una con dei ganci metallici. È una fissazione, pensano tutti, crescendo gli passerà. Crescendo non mi passa. 21 anni, scienze politiche. Sono indietro con gli esami e mi chiamano per fare il militare. Io vorrei anche andarci ma c’è il solito problema: l’esercito impone una divisa.

Una divisa piena di bottoni. Mi ricoverano a Roma. Un plotone di dottori mi sottopone a test di tutti i tipi: visite neurologiche, colloqui, questionari attitudinali, macchie di Rorschach. Alla fine il primario di Psichiatria mi convoca nel suo studio: «Il tuo cervello è diverso da quello degli altri – mi spiega – e per i bottoni deve aver elaborato una specie di rifiuto. Li cancella. Non li ammette. Fa di tutto per tenerli lontano dal tuo corpo. Forse è una questione estetica». Questo mi dice, consegnandomi un documento che certifica la mia inidoneità al servizio militare. In fin dei conti questa storia dei bottoni mi ha risparmiato un anno di pulizia latrine, sveglie all’alba e ritirate. Solo in un caso ha rappresentato uno svantaggio: privato della possibilità di giacche e di camicie, quando riuscivo a entrare di straforo a una festa elegante, venivo subito notato rischiando puntualmente di essere sbattuto fuori. Per fortuna, però, succedeva raramente. Quasi sempre interveniva il mio angelo custode.

Gianluca

A 16 anni sono già il portiere della Primavera del Napoli, sogno la Seria A, l’esordio in prima squadra, i cori della curva. Tutto sembra possibile… ma Firenze mi manca troppo, rinuncio al San Paolo e faccio in modo di essere acquistato dalla Pistoiese. Alcuni problemi con la spalla destra e altri con la dirigenza della squadra mi spingono però a lasciare il calcio. Ai guanti subentrano i guantoni e divento pugile. Vinco il campionato italiano pesi medi, ma i 25 metri quadrati del ring mi stanno stretti ed evado anche da quelli. Poi il colpo di fulmine: calcio storico fiorentino. Un incrocio tra uno sport estremo e una rissa da strada.

4 portieri, 8 difensori, 15 attaccanti. 27 gladiatori per ogni squadra si affrontano a calci e pugni in partite da 50 minuti. Due dei miei più cari amici sono calcianti e giocano coi verdi. Hanno bisogno di una persona che sia abbastanza forte da contrastare gli avversari ma anche abbastanza agile da distanziarli quando scatta. Due soli allenamenti e sono in squadra.

Giugno 1980. Al mio esordio realizzo subito una caccia (che è come un gol nel calcio). Esco dal campo sanguinante e soddisfatto. Il calcio storico è violento ma c’è un codice d’onore e devi essere leale. Chi è scorretto, viene punito con il Sant’Antonio: due giocatori lo bloccano e il terzo, vittima della scorrettezza, lo colpisce. Io i Sant’Antoni preferisco farli da solo, senza l’aiuto di nessuno.

Se un giocatore si comporta male, lo affronto e lo punisco. Con gli anni saranno introdotte nuove regole: chi fa una scorrettezza viene espulso. È un peccato, però! Così si incentivano le pratiche sleali, sottraendo i vigliacchi alla giusta punizione a cui invece andrebbero incontro se restassero in gioco.

Anche fuori dal campo se c’è da picchiare non mi tiro indietro (per quanto, di solito, mole e reputazione siano sufficienti per far passare a quasi tutti la voglia di sfidarmi).

Tra i casi in cui non ci si può esimere dall’uso delle mani ci sono poi quelli fortuiti…Una sera, mentre esco di casa con due amici, veniamo quasi investiti da un ragazzo inseguito dalle urla disperate di una donna. Scippo. Scatta l’inseguimento. Ladro veloce. Noi più veloci. In pochi secondi lo raggiungiamo. Pronti ad atterrarlo come un calciante della squadra avversaria.

Primo pugno. Secondo. Preparo il terzo, ma il borseggiatore è già per terra. In ginocchio sulle strisce pedonali, di fronte a una fila di macchine che lo accecano coi fari. La borsa viene restituita alla ragazza. Tutti i soldi trovati addosso al ladro vengono requisiti e investiti in consumazioni per noi e i clienti del vicino Bar Tropicana.

Sono gli anni in cui, spesso in coppia con Bruno Simonini (detto “Brunone”), mi occupo della sicurezza dei più importanti locali di Firenze e della Versilia. Apertura alare 2 metri e 35, Brunone è in grado di bloccare, respingere, allontanare fino a sei persone alla volta. Quando c’è una rissa, lui senza scomporsi spinge lontano i contendenti e serafico gli dice: «Ragazzi, andate via, perché quello dietro di me è cattivo». Alle sue spalle, sorridente, ci sono sempre io.

Soldano

Metà anni ‘90, primi cellulari.

Megafesta in una villa alle porte di Firenze. Come al solito non siamo invitati, come al solito elaboriamo una strategia per eludere i controlli all’ingresso. Siamo a cento metri. A fianco al serpentone di macchine parcheggiate fuori dal cancello. Riesco a procurarmi il cellulare del ragazzo della security che, in quel momento, lista degli invitati in mano, apre o chiude il cancello. Fingendomi l’addetto stampa del Consolato americano di Firenze, lo chiamo e gli comunico che Robert Bartholemew, il figlio dell’Ambasciatore americano, sta arrivando alla villa – senza scorta, in una macchina privata, con gli amici Andrew McCorwick e Laurence Bonetti – per fare una sorpresa alla festeggiata.

Nell’arco di un minuto io, Andrew e Laurence ci presentiamo al cancello. Gli uomini alla porta quasi si inchinano. Li superiamo con la sfrontata naturalezza degli invitati di prestigio.

Mentre sorseggio una Coca Cola con fetta di limone, mi guardo intorno. Ancora prima di avere il tempo di socializzare con qualche avvenente fanciulla, un buttafuori – messo in allarme dalla mia maglietta, solitaria in mezzo a un esercito di camicie e papillon – mi raggiunge e mi chiede di mostrargli l’invito che non ho. Appoggiandomi affettuoso una mano sulla spalla, mi guida poi in un’altra stanza. Si avvicina deferente a un paio di spalle contenute a malapena da una enorme giacca nera. «Capo, questo ragazzo è senza invito». Gianluca si gira, lo guarda, mi guarda. «Tranquillo, è un mio amico, può restare».

Bar Dolce Vita, piazza del Carmine 6R, Firenze. Da sempre crocevia di nobili, delinquenti, intellettuali, spacciatori, operai, universitari, quel locale è il punto di partenza delle nottate di tutti i fiorentini.

È lì che io e Gianluca ci incontriamo per la prima volta. Fine giugno, ore 22 e 45. In piedi fuori dal locale. Un ragazzo ubriaco comincia a spintonarmi. Io cerco di farlo ragionare, lui continua a spintonarmi.

Una mia amica, spaventata, va a chiamare aiuto. Quando ormai gli spintoni stanno per diventare pugni, torna in compagnia di un gigante, di qualche anno più grande di noi. L’uomo pieno di muscoli fissa, con un mezzo sorriso, il mio aggressore. Solleva la mano, armata di una sigaretta, e gli tira il mozzicone addosso.

«Lui è mio amico», dice, indicando me.

«No, scusa… in realtà…», balbetta il ragazzo spaventato.

«Non mi interessa. Puoi andare!». Da quella sera io e Gianluca diventiamo amici. Da quella sera – sebbene la comune passione per i viaggi ci porti, a volte anche per mesi, lontano da Firenze – le nostre strade cominciano, sempre più spesso, a incrociarsi. Il mio passaporto colleziona timbri.

Dalla New York anni Ottanta, dove vado per due settimane di vacanza e poi, tra feste folli e modelle strepitose, finisco per rimanere quasi un anno… alla Tripoli del 2011 con strade piene di gente che, a colpi di Kalashnikov, festeggia l’uccisione di Gheddafi. Curiosità e incoscienza mi spingono a esplorare anche posti abitualmente poco frequentati dagli occidentali. Però, per fortuna, le collane da guerriero, i grossi anelli e i bracciali d’argento che – dal polso al gomito – mi ricoprono gli avambracci, mi procurano l’empatia e il rispetto delle popolazioni indigene.

Gianluca

Foreste, spiagge, perizomi, musica, sole… altro che il casino e il freddo di New York! È il Brasile la mia seconda patria. E poi è uno dei pochi posti al mondo in cui la qualità della carne è così alta da non farti rimpiangere la bistecca fiorentina.

Anche il portoghese mi piace. Prendo lezioni, lo studio seriamente, fino a impararlo quasi alla perfezione. Vorrei restarci a vivere, almeno per qualche anno. Compro dei terreni a sud di Rio de Janeiro. Socializzo con almeno un quarto della popolazione femminile sotto i 30 anni. Nelle miniere di Goìas acquisto smeraldi purissimi, che, però, in mancanza di una certificazione ufficiale, faccio fatica a rivendere in Italia. Viaggio molto all’interno del paese, visitandolo da nord a sud.

Sulla strada per Buzios, vengo fermato dalla polizia federale. Non avendo con me i documenti, in attesa di riscontro da parte dell’ambasciata italiana, mi fanno entrare in una stanzetta spoglia e caldoumida del commissariato.

A San Paolo hanno appena arrestato Tommaso Buscetta e facce come la mia, per la polizia locale, significano mafia. Sul tavolo hanno perfino lasciato una pistola, sicuramente scarica, per mettermi alla prova. Non cado nel tranello e aspetto, parlando di calcio con il commissario. Nella mia vita molte volte sono stato fortunato.

A vent’anni, in una gara di forza con gli amici, cominciamo a ribaltare macchine. A turno. Una Cinquecento a testa. Solo con l’avambraccio. Abbiamo intenzione di capovolgerne almeno cento.

Per fortuna, la polizia ci arresta dopo le prime dieci. Con l’aiuto di un amico carrozziere, riusciamo a pagare i danni ai proprietari, che non sporgono denuncia.

A ventidue anni, accerchiato da tre tossici armati di coltello che vogliono rubarmi il motorino, distribuisco equamente pugni e calci. Braccia rotte, contusioni, finché uno di loro – cadendo all’indietro – batte la testa sul marciapiede ed entra in coma.

Da legittima difesa rischio ora un’accusa di omicidio. Per giorni vivo nel terrore che quel ragazzo muoia. Sono sconvolto. Paura. Rimorso. Mi metto perfino a pregare per lui. Si salva.

Due anni dopo lo incontro nuovamente. Lui mi riconosce, mi abbraccia, mi ringrazia, scoppia a piangere. Ora è pulito, lavora, si è pure fidanzato. Senza quel pugno che l’ha tenuto in ospedale per due mesi – mi confessa – non sarebbe mai riuscito a disintossicarsi. Laccio emostatico e siringa, l’avrebbero trovato morto in qualche vicolo.

Gianluca e Soldano

I nostri destini che sembravano totalmente diversi, oggi, inaspettatamente, hanno finito per essere simili.


Soldano Kunz Lorena D’Asburgo continua a gestire il ristorante “La giostra”, aperto dal padre più di 25 anni fa. Gianluca Lapi, a gennaio del 2019, ha aperto con il fratello “Casa Lapi”, ristorante che - durante il lockdown del 2020 - ha offerto pasti gratis a decine di famiglie bisognose.

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