Quando mi chiederanno «e cosa hai fatto tutti questi anni?» io potrò rispondere «sono andato a letto tardi per giocare ai videogame». E forse dormire e giocare ai videogiochi hanno qualcosa in comune più di quanto si potrebbe pensare: entrambe sono attività spesso criticate, bollate come inutili e poco produttive e allo stesso tempo, però, pervadono la nostra vita. Ma soprattutto appartengono entrambe ai territori del sogno, a quell’intensificazione nervosa, immaginativa e visionaria che è propria del lavoro onirico o dell’allucinazione psichedelica.

È notizia di questi giorni che Alexandria Ocasio-Cortez è diventata anche una Twitch Streamer. Probabilmente sapete tutti chi è AOC, come viene abbreviata la giovane deputata democratica, astro non più nascente ma ormai folgorante della sinistra statunitense. È possibile invece che non sappiate cosa sia Twitch. E qui c’è il primo paradosso: nonostante il videogioco sia l’ambito della cultura pop più influente degli ultimi quarant’anni, quello per certi versi più decisivo, resta in buona parte un fenomeno nascosto, un universo parallelo perché ritenuto marginale o comunque interessante solo per chi lo abita. Errore. Prendiamo proprio Twitch: lanciato nel 2011, venne acquistato per quasi un miliardo di dollari da Amazon nel 2014 (c’aveva provato anche Google ma si era ritirata per timore dell’antitrust e delle possibili accuse di posizione dominante nello streaming video).

Oggi Twitch è tra le prime quattro piattaforme al mondo a generare più traffico, dopo Netflix, Google e Apple: nei periodi di punta produce l’1,8 per cento del traffico internet negli Stati Uniti (al pari delle altre piattaforme di streaming ha un impatto ambientale non indifferente). Nato come sito dove trasmettere le proprie partite (attenzione: non per giocare in, come si dice, multiplayer, ma per far vedere la mia partita), è diventato il punto di riferimento dei gamer e di fatto ha segnato l’imporsi di quel vero e proprio format video dove in parallelo all’azione all’interno del gioco, in un angolino dello schermo, c’è la telecamera puntata sul giocatore che commenta le proprie azione e disqusisce dei massimi sistemi.

Successo globale

Alcuni di questi gamer sono diventate delle autentiche star globali: è stato calcolato che il più famoso, Richard Blevins (nickname Ninja), guadagni più di mezzo milione di dollari l’anno con i 16 milioni di follower che ha su Twitch. Dopo essere passato, in una sorta di calciomercato videoludico, alla piattaforma omologa di Microsoft, a luglio di quest’anno ha firmato un contratto di esclusiva con Twitch. Ovviamente anche le altre piattaforme provano a creare il loro canale di streaming ludico, Youtube soprattutto, ma anche Facebook e appunto Microsoft (che ha chiuso il suo sistema, Mixer, proprio per allearsi con Zuckerberg e il suo Facebook Gaming). È ovvio che un mercato che genera (e sono dati dell’anno scorso limitati agli Stati Uniti) 533 miliardi di minuti all’anno di streaming, 15 milioni di utenti attivi al giorno e circa 3 milioni di broadcaster al mese, è un mercato enorme. Nel 2018 Twitch è stato visto dal pubblico tra 18 e 25 anni per 3 ore e 25 minuti a settimana, un’ora in più di quanto sia visto lo sport, come dire, “reale”. E tutto questo prima del lockdown e della spinta ai consumi virtuali.

Un interesse politico

Ma il videogioco non dovrebbe interessare solo da un punto di vista economico (del resto è da più di un decennio che quella videoludica è un’industria molto più grossa di quella cinematografica), ma anche politico. È difficile capire quello che è successo nel 2016 con Brexit e soprattutto con l’elezione di Trump senza fare i conti con il gamergate. Il gamergate è una serie di molestie e violenze verbali (e in alcuni casi fisiche) che nel 2014 prese di mira alcune sviluppatrici di videogiochi e giornaliste di settore da parte di una torma di utenti “offesi”, per così dire, dall’inserimento di sensibilità progressiste e femministe nei loro giochi preferiti.

Di fatto fu l’esplosione di un maelstrom in cui repressione sessuale e frustrazione hanno generato una quantità incontrollata di sessismo e razzismo ben presto incanalata e fomentata dall’alt-right. Alt-right che ha proprio nei forum dedicati ai videogiochi o altri aspetti della cultura nerd una base di consenso. Per chi non l’ha seguito in diretta all’epoca può essere utile il libro di Angela Nagle Contro la vostra realtà (Luiss University Press) un informato resoconto delle «guerre culturali» che prima in rete, su alcuni forum e poi in tutta internet, infine nel discorso pubblico e politico più ampio, sono state combattute negli ultimi anni.

Guerre culturali

Le guerre culturali ci sono sempre state. Senza farla troppo lunga, anche il 1968 è stata una “guerra culturale”. La specificità di quello che è successo in rete negli ultimi anni (e che, come latte lasciato a bollire, è tracimato tutto intorno diventando, di fatto, la nostra realtà politica) è che le battaglie su temi come femminismo, sessualità, identità di genere, razzismo, libertà di parola e politically correct si sono combattute lungo linee di frattura completamente differenti rispetto agli anni ’60 e ’90, quando gli adulti “conservatori” provavano a fare argine alla tendenze secolarizzanti e liberali dei giovani.

Negli ultimi anni, invece, c’è stato un rigurgito online che «è riuscito a mobilitare – scrive la Nagle – una strana avanguardia fatta di adolescenti patiti di videogiochi, anonimi appassionati di anime giapponesi che amavano pubblicare svastiche sul web, conservatori fan di South Park, burloni antifemministi, molestatori nerd e troll creatori di meme dotati di umorismo nero e amanti della trasgressione fine a sé stessa, al punto di rendere difficile capire quali posizioni essi sostenessero realmente e quali invece esprimessero solo, come direbbero loro, “per il LOL”».

Laboratorio politico, settore economico enorme e globale (tanto per dire: il mese prossimo ci sarà il lancio mondiale della nuova generazione di console Sony e Microsoft, rispettivamente PlayStation 5 e Xbox Serie X), avanguardia delle nuove forme di spettacolo e dei suoi linguaggi. Questo per dire quanto grande sarebbe l’errore di sottovalutare il videogioco. Ma sarebbe un errore anche limitarlo a questi aspetti. Il videogame possiede anche una straordinaria dimensione estetica, creativa, immaginativa. È un’arte giovane. Chi, come me, ha intorno ai quarant’anni può dire di averla vissuta tutta: è come aver vissuto in prima persona tutta la storia della letteratura da Omero a Philip Roth, ricordarsi quando è uscito Don Chisciotte o Madame Bovary, averli letti “in diretta”.

Dal Vcs 2600, pionieriestica console di Atari, ai leggendari computer Commodore: il Vic-20, il Commodore 64 e l’Amiga, e poi l’imporsi dei pc negli anni Novanta anche come macchine da gioco, il mondo giapponese con Nintendo e Sega, l’arrivo nel 1995 della corazzata Sony con la prima PlayStation e così via. Racconta questa storia, in maniera brillante e “di prima mano”, Lorenzo Fantoni in Vivere mille vite. Storia familiare dei videogiochi, appena uscito per Effequ. Costruito per essere fruito in maniera interattiva (si può scegliere il proprio percorso attraverso i capitoli, in base ai propri interessi), Vivere mille vite intreccia alla storia del medium quella sua personale. Un memoir attraverso i videogiochi può sembrare un’idea strana solo a chi non è cresciuto con essi.

Un’arte giovane

Oltre al libro di Fantoni mi viene in mente Gamelife: A Memoir di Michael W. Clune, inedito in Italia, così com’è pieno di spunti personali Voglia di vincere di Tom Bissell, un piccolo classico del canone “letterario-videoludico”. Il fatto è che nottate passate a plasmare intere epoche su Civilization (a proposito: è appena uscita negli Usa l’autobiografia del suo creatore, Sid Meier, Memoir!: A Life in Computer Games), perduti in interminabili flânerie per le strade di Grand Theft Auto, le mezz’ore passata ad aspettare che caricasse un gioco su Commodore 64, scatenano una valanga di memorie. «La marea sigiziale dei ricordi» la definiva Benjamin: lui si riferiva a quello che si prova quando si tolgono i libri della casse dopo un trasloco e si ripensa all’occasione in cui lo si è comprato, chi ce l’ha regalato, o chi eravamo quando l’abbiamo letto.

Ecco, vale lo stesso per i videogiochi: feticci postmoderni in cui l’immaginario e il desiderio si fondono in un processo alchemico. E non è un caso che le memorie più intense siano legate ai giochi degli anni Ottanta e Novanta.

Ecco, non voglio scomodare Benjamin, che sul potere emancipatorio delle memorie d’infanzia scrisse delle pagine assolute, ma vero è che nei videogiochi, strano miscuglio di arte e merce tipicamente postmoderno, abbiamo riversato una tale quantità di tempo oggettivo e soggettivo che ritornarci ora permette di farlo brillare. Non si tratta semplicemente di “retromania”: prima degli streaming da milioni di follower, prima dei forum dell’alt-right, prima degli investimenti da miliardi di dollari, i giochi di quegli anni, con la loro grafica pixellata e scarna, apparivano in un panorama regolato dalla “scarsità dell’informazione”. Procurarseli era difficile, ci si informava sulle riviste, come Zzapp! o The Game Machine, che uscivano una volta al mese (e non come un sito di oggi aggiornato ogni secondo), la loro grafica era essenziale, il loro funzionamento tutto da imparare: tutti questi “buchi” bisognava riempirli con l’immaginazione, l’immedesimazione, il desiderio. Con il sogno.

Bibliografia: Angela Nagle Contro la vostra realtà (Luiss University Press); Lorenzo Fantoni, Vivere mille vite. Storia familiare dei videogiochi (Effequ), Michael W. Clune, Gamelife: A Memoir (FSG), Tom Bissell, Voglia di vincere (Isbn), Sid Meier, Memoir!: A Life in Computer Games (W.W. Norton).

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