Sessantaquattro fa oggi, Franco Basaglia prendeva servizio al manicomio di Gorizia come direttore. Respinto dal sistema universitario come un corpo estraneo, aveva accettato nel 1961 di andare in trincea, dove la sua rivoluzione avrebbe preso forma e corpo appunto, quello dei “matti” che sopravvivevano in quell’inferno. Quando il capo ispettore, Michele Pecorari, gli portò alla firma - un atto di semplice routine - quel 16 novembre il librone delle contenzioni meccaniche, i pazzi da legare, Basaglia giocherellò con la stilo, poi si fermò con un gesto aereo, la richiuse e disse il suo celebre: «E mi no firmo», e io non firmo, lo sparo di inizio di una rivoluzione culturale che avrebbe portato poi alla legge 180 e alla abolizione dei manicomi.

Con un atto di resistenza civile che vale lo studente davanti al carro armato a Tien an Men, Basaglia apre la più straordinaria stagione di trasformazione in senso progressista e democratico della vita del paese, quella che avrebbe portato alla legge sull’aborto e alla istituzione del servizio sanitario nazionale.

L'ospedale psichiatrico Materdomini, al confine tra Nocera Superiore e Roccapiemonte (Salerno), prima di essere convertito in casa-famiglia dal direttore Pasquale Palumbo, in una immagine di repertorio. Quaranta anni fa si chiudeva definitivamente l'era dei manicomi in Italia. Una 'rivoluzione' resa possibile dalla legge 180 del 13 maggio 1978, che porta anche il nome dello psichiatra che la promosse, Franco Basaglia. ANSA/LUIGI PEPE

Oggi che le conquiste della legge 180 sono messe a rischio dalla volontà della maggioranza di riscriverla in un senso antitetico a quello immaginato dal suo ispiratore, passo indietro inaccettabile per l’Italia, c’è una questione specifica, che potrebbe sembrare marginale, ma che invece è al cuore di quella riforma, che rifiutava proprio la mortificazione e la costrizione dei pazienti degli istituti di salute mentale.

Ancora oggi non abbiamo statistiche certe, interoperabili e su scala nazionale delle contenzioni meccaniche che vengono effettuate nel nostro sistema sanitario. Una pratica che non ha nulla a che vedere con una terapia o con un presidio medico, ma è solo il retaggio di un passato concentrazionario. Sono ancora troppi, se si fa eccezione del Friuli Venezia Giulia e di poche realtà virtuose no restraint, che alle fascette preferiscono il lavoro di cura, il confronto con il paziente, la terapia, i reparti che usano la contenzione meccanica, per tacere di quella chimica e ambientale.

Non abbiamo statistiche e dati che ci dicano in maniera uniforme su quante persone venga applicata, per quanto tempo, con quale motivazione medica. Solo pochi giorni fa la Conferenza Stato Regioni, recependo il lavoro di un tavolo tecnico per il superamento della contenzione meccanica che risale al 2021, ha dato 12 mesi di tempo e zero euro per avvicinare un orizzonte sanitario in cui non si leghi più.

Per cercare di costruire qualcosa subito, creando uno spazio legislativo che istituisca una banca dati dove far arrivare i dati sulle contenzioni e avere finalmente una immagine chiara che ci consenta di superare questa pratica di tortura, un emendamento in manovra di Bilancio chiede 2 milioni di euro per fare un passo avanti concreto in questa direzione. Non lasciando all’anno che verrà e al senno del poi una battaglia di civiltà e di diritti umani che, come dovrebbe accadere anche su altri versanti - penso, ad esempio, alla inaccettabile mancanza di dati certi sui femminicidi in Italia - parte dalla prevenzione, dunque dalla cognizione di un fenomeno e da numeri affidabili, verificati, aggiornati.

Conoscere per deliberare, ma anche deliberare per conoscere. E prevenire. Nel mondo dei dati e dell’intelligenza artificiale, di una sanità che non perda mai di vista l’umanità e la dignità delle persone, legare una persona al letto è un assurdo che può e deve essere superato. Per sempre.

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